La messa è finita per il convento Emiliani di Fognano: alla mancata riapertura del centro estivo, dell’asilo nido e della scuola materna si aggiunge ora la notizia dell’abbassamento del sipario su tutte le attività del monastero, tra cui l’hotel. Per l’istituzione religiosa che dal 1544 – fatta eccezione per l’epoca napoleonica – occupa l’edificio corrispondente a gran parte del centro storico di Fognano questa rappresenta una sostanziale uscita di scena dalla vita della vallata. Le monache che abitano il monastero – meno di una decina – rimarranno a vivere tra quelle mura fino a nuova disposizione dell’amministratore nominato dal Vaticano. Quella del convento Emiliani è stata una presenza
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La " lavandera"
"L'eriva la ptazé!" A questo grido d'allarme le lavandaie intente a lavare i panni al fiume, si alzavano precipitosamente e mettevano in salvo i panni. La ptazè era l'acqua della gora che, dopo aver mosso le macine del mulino di Chiché, raggiungeva veloce il vicino fiume aumentandone il livello. L'unico pericolo era quello di veder filar via con la corrente un asciugamano o un indumento strappato dal sasso su cui era stato posato. Un pericolo più consistente, e che incombeva anche sulle lavandaie a monte del mulino, era invece quello delle fiumane improvvise, quando le piogge cadute sull 'appennino gonfiavano il fiume che si presentava d'un tratto torvo e minaccioso.
Il lavoro della lavandaia aveva un suo rituale fatto di gesti fissi e anche di regole tacitamente concordate. Il lavello delle più assidue, anche se usato saltuariamente da altre. diventava proprietà privata. La sua scelta era fatta con cura. La lavandaia passava in rassegna i sassi più grandi sul greto e sceglieva quello che riassumeva in sè certe caratteristiche: doveva essere sufficientemente largo, liscio, avere una forma quasi rettangolare e uno spessore consistente. Lo portava poi nel punto già deciso, ne appoggiava una estremità nell'acqua e l'altra su alcuni sassi più piccoli, curando che avesse la giusta inclinazione e la necessaria stabilità. Sceglieva poi un ciottolo piatto e levigato per poggiarvi le ginocchia. Le lenzuola venivano solitamente lavate in mezzo al fiume su un grosso sasso sul quale venivano sbattute con colpi secchi e decisi. La loro strizzatura finale richiedeva la collaborazione di un'altra persona. Il lenzuolo, tenuto con due mani ad ogni estremità, veniva torto in direzioni opposte e si avvolgeva a vite cacciando fuori l'acqua di cui era imbevuto. Lavati e strizzati i panni erano sistemati "te fagot". Il fagotto era un involto cilindrico ottenuto arrotolando un sacco di iuta sul quale erano stati appoggiati trasversalmente i panni lavati e strizzati. Secondo il suo peso, la lavandaia lo portava sottobraccio oppure sulla spalla tenendo il braccio piegato col gomito in fuori e la mano saldamente ancorata al fianco per evitare che scivolasse. Risaliva poi verso il paese e le siepi dell''orto di Cencio o i campi sopra le Casette o il Suffragio fiorivano di indumenti colorati e di candidi lini stesi al sole. Erano colori duramente sudati, sottoposti a un lavaggio certamente ecologico che aveva conosciuto solo il sapone e aveva il profumo del prato al sole.