INDICE degli ARTICOLI
I miei primi tempi / La Trattoria / Al lavoro nel Prospetto / Al lavoro nel Prospetto (seguito) / Nonna Laura / A Vallepiana / La Fiera dell'Ascensione/La Feata e la solenne processione. particolari.( Rivalità tra Fognanesi e Brisighellesi)- La ghiacciaia/ La stanza del mistero / Ca' di Bacco / Una delusione a quattro anni / Fatti di paese/ Il suo primo parto/La zia avara/ La mia Topolino/ Pensieri e ricordi/ Una favola di Nonna Laura/ Il 2 Novembre/ Curiosità in pillole/ Un'altra vecchissima favola in dialetto, con traduzione in italiano, raccontata da Nonna Laura/ C'era una volta...una cucina/
I MIEI PRIMI TEMPI
Nacqui a Lutirano, un paesino tra i monti nel comune di Marradi, due anni dopo la morte della mia sorellina omonima.
Non ebbi alcuna cognizione del luogo perché a soli 4 mesi i miei genitori e Ada, di 9 anni circa, si trasferirono a Fognano. Avevano rilevato un’osteria da un tale chiamato “E mozì” per via di un braccio monco. L’osteria consisteva in uno stanzone lungo, due gradini sotto il suolo, un bancone, due lunghe tavole con panche di legno lucide per essere state strofinate dal fondo schiena degli avventori. I clienti erano soprattutto gente del luogo che veniva a fare la partita e a bere un quartino (pronta a fare il bis e oltre…), dopo il lavoro di bracciante o di vignaiolo della giornata. Guadagni magri. Qualche piatto di tortelli o di cappelletti per le feste. Un appuntato dei carabinieri che ogni tanto veniva a farsi cuocere una volpe con disgusto da parte di mia madre che si lamentava del puzzo di selvatico stagnante nell’aria. Il libretto dei crediti che riportava teorie di piccole somme, sotto nomi che si ripetevano, perché l'ugola bisognava tenerla inumidita anche se i soldi mancavano. Le mogli a casa a fare salti mortali per mettere qualcosa in tavola, magari coi proventi del ricamo, e il marito a giocare a carte o alla morra per tornarsene alticcio e pieno di ragioni da vendere di fronte alla famiglia. Mercanti di stoffa di Prato, col fagotto sulle spalle, che diventavano per qualche giorno dozzinanti dalle bestemmie facili e dai racconti coloriti. Gente semi- analfabeta che però sapeva convincere a comprare stoffa di scarsa qualità e metratura, prodigiosi nella memoria di crediti e creditori. Ricordo Walter Rosati di Iolo (Prato) che nel suo libriccino aveva scritto: “La bionda dal sedere grosso (ho purgato il termine) in cima alle scale". E questo valeva un paese, una casa, un indirizzo preciso. Aveva un’abitudine difficile da sopportare specialmente per la mamma che poi doveva pulire: sputava in continuazione sul pavimento incurante della tabella di latta appesa alla parete in cui si leggeva. “La persona civile non sputa in terra e non bestemmia”. Walter possedeva anche la facilità della rima che sfruttava nello stornellare, specialmente col mio babbo. Si sfottevano e si rispondevano a tono ed era piacevole ascoltarli. Lo stornello veniva fuori ogni qualvolta c'era un avventore in grado di improvvisare trovando prontamente le rime, ma non erano tanti. Molti si limitavano ad ascoltare, però quando i fumi del vino li rendevano audaci, si lanciavano in canti popolari. C'era chi aveva una sua canzone prediletta che ripeteva ogni volta con parole approssimative. Dalle gole irrorate dal vino, uscivano di frequente le note sbilenche di "Affacciati alla finestra o bella mora..." o di "Calze bianche traforate ricamate in seta nera per andare a passeggio la sera" con chiaro riferimento alle cosiddette lucciole, riferimento che ho capito molto più tardi nel tempo. Tra gli affezionati clienti non mancava mai Melandri, detto Tapino, repubblicano convinto e grande amico del mio babbo, suo compagno di lunghe partite e di spericolate funzioni. Mi chiedo ancora adesso come facesse Tapino a prestarsi seppure in nome dell'amicizia.Il cortile dietro la cucina era sull'orlo di un'alta riva che franava in continuazione e ogni tanto Tapino si lasciava legare da Ugo con una corda intorno alla vita e penzolava poi nel vuoto per sistemare fascine di stecchi lungo il bordo franoso. Sulle fascine veniva gettata della terra. In questa continua lotta tra la riva e mio padre, devo ammettere che mio padre aveva la meglio visto che nessuno, nemmeno un pollo è mai finito di sotto.
&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
Da Fiori di Banco di ADA TRERE' CIANI
-Gli uomini primitivi sentivano un gran bisogno di avere delle idee nuove e allora ci pensavano.
-Carlo Magno, figlio di Beppino il Breve,si chiamava così perchè era molto piccolo e non poteva farsi imperatore perché poteva diventare anche il figlio maggiore.
-Ghilileo Ghililei scoprì l'orologio a dondolo
&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
LA TRATTORIA
In fondo allo stanzone a sinistra del bancone, una tenda rosso scuro nascondeva i gradini di accesso alla cantina dove le poche damigiane di sangiovese e di albana tenevano compagnia a una fila di fiaschi e di bottiglie. A destra invece, salendo due gradini, si entrava nella cucina coi fornelli in muratura davanti ai quali la mamma ravvivava i carboni accesi con la ventola di piume di tacchino. C’erano inoltre un caminetto, un acquaio di sasso su cui si arrotava la lama dei coltelli, il secchio e l'orcio di rame per andare a prendere l'acqua alla fontana, una tavola e una credenza. La trattoria (situata all’ attuale altezza di via Emiliani 53) stata rilevata nel1934 da “E mozì”, un mezzo farabutto con pendenze debitorie non dichiarate. Nel 1936 il babbo, insieme ad altri del paese, partì per l’Abissinia (Etiopia), col contratto di 6 mesi, nella speranza di un guadagno maggiore. A gran fatica riuscì a completare i termini dell’ingaggio e se ne tornò volentieri e con pochi soldi, a casa. Nel frattempo mia madre dovette fare i conti con i creditori del farabutto e si trovò con una sola damigiana di vino comprata grazie alla generosità di un cognato che le anticipò i soldi.
Mio padre e mia madre si erano sposati dove lei abitava, a Lutirano, e si erano trasferiti a Fognano "con 27 lire in due e la casa in nessun posto", come raccontava spesso mio padre. L’osteria fu il mio regno, quando non ero in cortile o nel Prospetto a giocare coi bambini. Il babbo si dedicava al commercio di pollame, conigli e uova e andava ai mercati di Brisighella, Faenza,Marradi e Modigliana. Tutti i contadini lo conoscevano e gli portavano coppie di polli, di faraone o conigli, anatre e oche. Se erano di più, contrattava l’acquisto sul luogo, cioè presso la casa colonica. Se si trattava di tacchini, tastava loro il gozzo perché il furbo contadino li faceva mangiare molto perché pesassero di più. Ugo li conduceva a casa a piedi, spingendo il branco davanti a sé. Si aiutava con due lunghe canne a cui lasciava il ciuffetto terminale di foglie e che adoperava come due lunghe braccia per tenere raggruppato il branco. A volte andavo con lui e, quando passavamo vicino a una sorgente, mi dava da bere raccogliendo l’acqua dentro la piega superiore del suo cappello. Io bevevo con avidità quell’acqua anche se sapeva di feltro e di sudore.
I pennuti li ricoverava momentaneamente nel cortile sul retro della cucina, poi li chiudeva in gabbie basse, fatte tutte di pioli di legno. con un piccolo sportello nella parte superiore. Le caricava su un carretto a mano e le portava alla stazione. Di lì il treno le trasferiva a San Piero a Sieve al signor Berni. Una volta, al ritorno dalla stazione, mi fece entrare in una gabbia vuota (evidentemente ero molto piccola) e mi divertii molto a fare la parte del pollo.
Faceva anche spedizioni di conigli già morti. Nel cortile li prendeva a uno a uno e, con un rapidissimo movimento della mano, girava il collo e il coniglio era morto e raggiungeva gli altri nel mucchio. Venivano poi appesi, scuoiati, liberati dalle interiora. E spediti. Non c’era ghiaccio, né attrezzatura refrigerante. Altri tempi... Infilava poi all’interno di ogni pelle un ferro a V e le metteva a seccare. Gli piaceva molto scherzare, aveva la battuta pronta e l’umorismo tipico dei toscani. Avrebbe voluto un figlio maschio e cercava di illudersi di averlo facendomi portare i capelli corti, a maschietto, e i pantaloncini. Per scherzare mi chiamava Pino.
Quando si comprò il furgoncino erano già passati parecchi anni e finirono anche le sue lunghe camminate a piedi. Ogni settimana andava su per la strada che da Pieve Thò porta a Modigliana e soffiava in una trombetta di ottone per avvertire i contadini della sua presenza. Qualche volta ritornava portando un “omaggio floreale” alla mia mamma. Si trattava di qualcosa che somigliava più a un mazzo di erba spagna, ma è l’intenzione quella che conta...
Carla , cioè "Pino", vestita e tosata come un maschietto. Sotto la foto mio padre aveva scritto Due Oche!
WWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWWW
Da Fiori di Banco di Ada Trerè Ciani
-L'uomo costruì i ponti, le gallerie e il paesaggio di campagna.
-Dopo la scoperta dell' America alcuni cittadini si stabilirono in america o per ragioni di collera oppure perché le andava bene il posto e così via..
-Roma è un paesino bello perchè c'è il Papa e la Piazza.
************************************************************************************************************************
AL LAVORO NEL PROSPETTO
La mia infanzia l’ho vissuta in un fazzoletto di paese: il Prospetto, la scuola a pochi passi da casa, il convento. Nel Prospetto, pavimentato a ciottoli di fiume e chiuso da un muro su cui vigilava una Madonnina, si affacciavano l’osteria, detta di Zabach (da un precedente oste), la bottega del fabbro, le finestre del Caffè e l’officina di un meccanico. Il fabbro Medeo (Amedeo Giraldi detto Scranô) ferrava cavalli e buoi e nell’aria aleggiava spesso un acre odore di unghia bruciata. Infatti prima arroventava il ferro già sagomato, poi lo appoggiava allo zoccolo dell’animale per impostarlo. Era in quel momento che, sfrigolando, l’unghia bruciava. Poi raffreddava il ferro buttandolo in un recipiente pieno d’acqua e procedeva a inchiodarlo sullo zoccolo. I chiodi venivano battuti in modo che entrassero obliquamente e ne uscissero lateralmente le punte che venivano tagliate. I ferri per le mucche avevano la forma all’incirca di una mezzaluna e non coprivano l’intero zoccolo. Naturalmente l’animale non soffriva minimamente ma, quando non stava fermo perché spaventato, Medeo lo colpiva nel fianco col martello. E bestemmiava. Era un andirivieni di contadini che portavano la “cmera” (parte dell’aratro) o la vanga o la zappa da “stié”, da assottigliare, e la fucina, rudimentale, era sempre accesa e Medeo sempre nero di fuliggine e carbone. Forgiava i ferri e i rispettivi chiodi che avevano la testa quadrata.
***********************************************************************************************************************
DA FIORI DI BANCO
-La destra del fiume è quella che noi se ci voltiamo verso la sorgente il nostro braccio è sinistro e anche la sponda de fiume è sinistra .
-Nel Friuli quelli della Venezia Giulia allenano bovini che sono mucche e suvini che sono anche maiali.
**********************************************************************************************
Il caffè Lamone aveva la porta verso la strada, dentro c’era un buon odore di caramelle. Io ci sono entrata pochissime volte. Andavo invece a ispezionare quello che la proprietaria metteva fuori della porta laterale che dava sul prospetto alla ricerca di preziosi tesori, come lucide carte di caramella o di “golosità” molto strane per una bambina come me: limoni verdognoli di muffa a cui era stata grattugiata la buccia. Li raccoglievo e li mangiavo. Niente malattie. Eravamo tutti più forti dei microbi. Noi bambini stavamo molto all’aperto e i maschi portavano i pantaloni corti anche d’inverno. Nella camera non c’era riscaldamento. L’unica fonte di calore erano il caminetto o la stufa, detta cucina economica, quella coi cerchi sopra, da alimentare a legna e su cui anche cucinare. Noi l’avevamo nell’osteria. Ne partiva una serie di tubi, imboccati uno all’altro, fino a entrare nel muro permettendo al fumo di uscire dal comignolo sul tetto. Dalle giunture colava sempre un liquido nero e puzzolente che veniva raccolto in barattoli appesi ai tubi con filo di ferro. A proposito di appendere, mi tornano in mente le strisce appiccicose, per acchiappare le mosche, che pendevano perennemente dal soffitto. Uno schifo a ripensarci, ma erano tanto usuali che non ci facevamo caso.
QQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQ
Da Fiori di Banco di Ada Trerè Ciani
-Milioni di anni fa la terra era ingrostita e c'era come una palla che girava attorno allo spazio.C'erano anche delle conche che quelle più piccole erano laghi e quelle grandi erano mari.Quando tirava il vento forte portava via i semini maturi e li portava nei campi degli altri così tutti avevano l'erba, anche i chinosauri, i fumosauri eccetera.
-Al tempo della caverna si usava il mortaio che era un grande sasso e il pestello che si usava per battere in quel pestaio.
-Col mortaio e col pestello si prendono e uno sta fermo e l'altro batte.
QQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQ
Questa filastrocca, che scrissi tantissimi anni fa, l'ho ritrovata in una vecchia agenda .Voleva essere
una descrizione della modesta cucina dell' antica osteria.
O j era ona volta ona cusèna quadreda
la finestra con l'inferieda
du sdirol satta ai camé
la sventla ed pann ed techè
quatre fornal a cherbò
( quatre bus t'on murat ed metò)
la scafa ed sas consumè
dai cortal ch'j eva erodè
ona credenza t' on chentò
l'impiancit ed lestrò
la cordèla ch'la pendeva
col masch ch' j s'epizichéva
ona tevla da tir
la mensla con i bichir
nòna ch' la s lamentéva
de stomg ch'o j doléva
e pù o j era dentre a sta fola
do bordeglie ch' el torneva da scòla.
On'gnera né prenzip e né re,
mo sta fola l'è la piò bèla per me.
C'era una volta una cucina quadrata,
la finestra con l'inferriata
due sgabelli sotto al camino
la ventola di penne di tacchino
quattro fornelli a carbone
(4 buchi in un muretto di mattoni )
l'acquaio di sasso consumato
dai coltelli che ci avevano arrotato
una credenza in un cantone
il pavimento di lastroni
la cordella che pendeva
con le mosche che si appiccicavano
una tavola da tiro
la mensola coi bicchieri
nonna che si lamentava
dello stomaco che le doleva
babbo che arrivava dal mercato
e mamma col mangiare preparato.
E poi c'erano dentro questa fola
due bambine che tornavano da scuola.
Non c'erano né principi né re
ma questa favola è la più bella
per me.
AL LAVORO NEL PROSPETTO (seguito)
Nel Prospetto, tra la bottega del fabbro e il muro della casa dov’era l’osteria, si apriva un breve corridoio a cielo aperto che chiamavamo “e busott”.Conduceva al cortile dietro la casa, un piccolo cortile delimitato da una rete metallica lungo il bordo che segnava l’orlo della riva. Nell’angolo c’era un gabinetto, un casotto in muratura con un buco sul pavimento da cui si poteva guardare verso il fondo della riva dov’era l’orto di Tugnê. Serviva agli avventori dell’osteria e a tutte le famiglie che abitavano lì intorno. Non esisteva altro servizio igienico, non esisteva carta igienica. Ad un filo di ferro, piegato ad uncino e fissato sulla porta, erano infilati pezzi di carta gialla e, raramente, di giornale. La mia mamma sorvegliava specialmente se veniva usato da qualche ubriaco e, talvolta, gettava secchiate di acqua.
Non posso dimenticare l’officina del meccanico Mentore che riparava biciclette, ma preferiva occuparsi di motori e di macchine. Che non erano molte a quel tempo. Era il mio castigatore, tuttavia non potevo fare a meno di andare spesso a ronzare nei suoi dintorni col ciuccio che mi pendeva dal collo anche se avevo già circa due anni. Appena poteva, Mentore me lo toglieva, lo immergeva nella nafta e me lo rificcava in bocca. L’unico risultato era che io correvo a casa piangendo forte e i miei genitori dovevano comprarmene uno nuovo.(nella foto: Io col ciuccio e una smorfia di paura perché lo sgabello sotto i miei piedi non era stabile sui ciottoli).
Lo stanzino del postino era davvero minuscolo. Si scendevano due gradini e, da dietro il suo tavolo, Tonino (detto Biciclatta" occupato nello smistare la posta, alzava gli occhi e ti guardava con gli occhiali che lampeggiavano sulla punta del naso. Non gli piaceva di essere disturbato nel suo lavoro. Se una ragazza, facendosi coraggio, si affacciava per chiedergli:- C’è niente per me? Invariabilmente rispondeva cantilenando: -Niente c’è sempre.- e la ragazza si allontanava delusa. Sapeva che avrebbe dovuto trattenere la sua curiosità e aspettare che Tonino, finito il suo lavoro, passasse per il paese a distribuire la posta.Solo le casalinghe del Prospetto non avevano bottega, non ne avevano bisogno. C’era sempre un angolo dove radunarsi insieme. Finiti i lavori domestici, uscivano dalle case con uno sgabello o una seggiolina, sedevano e aprivano il lavoro di ricamo sulle ginocchia. Dalle loro ruvide dita, uscivano bei ricami, il loro ago faceva miracoli. Fiorivano sulla tela serti e ghirlande di fiori, cerchi, ricci, bordi leggeri come nuvole. Erano pagate pochissimo ma quel denaro extra era molto utile alla famiglia in un tempo dove molte cose scarseggiavano.
Questa era l’attività nel Prospetto. C’era posto per tutti perché le pretese erano poche. Era un piccolo mondo laborioso che viveva i suoi giorni nella vicinanza e nella varietà, con molta capacità e…senza fretta.
$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$
Da Fiori di Banco di Ada Trerè Ciani
-Le mani dei vigili dirigono il traffico. Se i vigili non avessero le mani, nella città ci sarebbe una confusione.
-La maggioranza del popolo fa nove leggi, mentre la minoranza deve star zitta e non deve neanche discutere.
-Gli uomini entrano nella cabina col proprio giudizio. Poi votano secondo il partito che vogliono: a chi ha più voti allegano il sindaco.
$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$$
Nonna Laura
Era piccola, minuta, esile. Portava i capelli fermati a crocchia e indossava abiti lunghi con piccolissimi disegni, pois o quadratini, quasi sempre di colore scuro. Con la sua faccia rugosa e i capelli grigi, a me è sempre sembrata vecchia anche se non lo era perché è morta a soli 69 anni. Era molto attiva anche se mangiava come un uccellino. Le sue mani erano magre e io mi divertivo a sollevarle la pelle del dorso che si alzava di qualche centimetro. Raccontava favole bellissime, spesso in dialetto, favole che non ho mai trovato sui libri. I protagonisti erano animali e cose ed erano ricchi di filastrocche che si ripetevano. Quando i miei genitori si trasferirono dalle colline ai bordi della Toscana nelle colline romagnole, a Fognano, dove avevano affittato un’osteria, lei rimase col nonno che aveva l'incarico di Ufficiale Postale. L'altisonante appellativo significava viaggi giornalieri col calesse tirato da un cavallo, da Lutirano a Marradi, superando lunghe salite e discese, a prendere la posta per poi distribuirla nel suo paese e nella campagna circostante. Quando il nonno morì, la nonna si trasferì a Fognano, dove la mia mamma le aveva trovato una stanzetta a pianterreno a pochi passi dall'osteria. Era rispettosa e timida. Quando veniva a farci visita, invariabilmente si scusava dicendo: - Direte che sono sempre qui!-
Nella piccola stanza c'erano un caminetto, un sottoscala, una finestra, pochi essenziali mobili, ma quello che colpiva era il grande letto di ferro con pannelli di metallo con scene colorate nella testata e nella pediera. Sulla parete di fianco al letto era attaccato un grande orologio piatto di ceramica dipinta a fiori. Da esso scendevano due catene che terminavano con un peso cilindrico di metallo ciascuna. Oltre al continuo e forte tic tac, ogni quarto d’ ora l'orologio si lanciava in un concertino e le catene scendevano sferragliando. Sferragliare è il verbo giusto perché i pesi andavano su e giù con uno stridente rumore. Una volta andai a dormire con lei ma l'orologio mi teneva sveglia. Quando sentii che la nonna si era addormentata, mi alzai e fermai l'orologio. Subito nel buio sentii la voce della nonna che mi diceva nel suo dialetto lutiranese: - "Si è fermato l'orologio, (O s’ è fermé l’oriò),per favore rimettilo in moto"-
La gente del paese si recava da nonna Laura per un paio di scarpe o di pianelle. Portavano avanzi di stoffa, un po’ di fodera e un bacchetto della lunghezza del piede. Nonna Laura comprava fogli di grosso cartone e cartoccetti di sottili chiodini (i sivall) nella bottega di Giustèna . Seduta al suo deschetto vicino all’unica finestrella che dava sul cortile del padrone di casa, tagliava, inchiodava, cuciva e incollava usando la colla che preparava lei stessa con acqua, farina e aceto. Sotto la soletta di cartone, foderata di stoffa, inchiodava pezzi di copertone da bicicletta scartati dal meccanico. Le sue ciabatte duravano nel tempo ed erano sempre precise e ben fatte. Era brava anche a fare i materassi di crine o di lana e veniva chiamata in paese e in campagna. Nel caminetto nonna Laura alimentava il fuoco con i pezzetti di legno ( i s-cioncle) che raccoglieva lungo il greto del fiume, levigati e portati a riva dalla fiumana.
Una notte del novembre 1949 un suo vicino venne a chiamare i miei genitori che nel frattempo si erano trasferiti con l'osteria in Foro Boario. Nonna Laura, con una candela in mano, aveva salito la scala e aveva bussato alla sua porta chiedendogli di avvisarli che non si sentiva bene. Aveva trovato la forza e il coraggio di svegliare il vicino, di sedersi davanti al caminetto e aspettare di partire La mia mamma, subito accorsa, la trovò riversa vicino al camino. Aveva acceso il fuoco e aveva preparato il caffè.
Cara nonna Laura, anche lasciando questo mondo non volle disturbare facendosi accudire in tempo.
Quando penso ai suoi ultimi momenti così solitari, mi si stringe il cuore. Non ha potuto dire ancora una volta: - Direte che sono sempre qui!-
lllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll
Da Fiori Di Banco
-I Romani non avevano l'indirizzo ma si spiegavano bene perché quando uno usciva di notte c'erano degli uomini che gli davano una botta in testa.
-Per dare la penitenza a uno schiavo si poteva fare in tanti modi: crocifisarlo, cecarlo eccetera.Lo schiavo sentendo che non era libero diventava furiato.
-La prima catacomba la scavarono due uomini e la scavarono così bene che dopo non uscirono più perchè non erano capaci.
lllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll
A VALLEPIANA
Chi avrebbe accettato l’invito a pranzo dopo aver visto una gallina passeggiare sopra la sfoglia appena fatta? Io non potei e rifiutai con una scusa. Accadde nella cucina della canonica di Vallepiana. Si chiamava Vallepiana, ma di piano non aveva proprio niente, nemmeno il cimitero dove anche le tombe erano in pendenza. In quegli anni le parrocchie, dalla più piccola alla più sperduta, avevano la loro scuola. Il più delle volte consisteva in una stanza prestata dal parroco nella canonica. I bambini venivano dalle case sparse tra le colline, spesso molto distanti ed erano di tutte e cinque le classi. Ero stata incaricata di supplire per un mese la maestra titolare in permesso per malattia. Accettai con molto piacere l’incarico e partii, naturalmente a piedi, e con lo zaino contenente alcuni effetti personali e dei viveri perché mi sarei fermata lassù per tutta la settimana.
Arrivai a destinazione dopo una camminata di due ore. Il prete, don Giulio, mi accolse con gentilezza e mi presentò sua nipote Rosina. Il marito di lei non c’era perché si trovava sull’Appennino a fare il carbone. Rosina era una donna particolare, piccolina, amante del ballo, che prendeva la vita in un modo tutto suo, semplificando molto le cose. La cucina era adiacente alla stalla e comunicava con essa attraverso una finestra interna che serviva per controllare ciò che vi succedeva. Da lì si affacciava spesso un asino che seguiva curioso i suoi movimenti e annusava i vapori che salivano dai tegami posti sulla stufa accesa. Dalla porta, sempre aperta, entravano le galline e becchettavano le briciole che trovavano sotto e intorno alla tavola. Rosina le lasciava fare, forse le piaceva la loro compagnia anche se, ogni tanto, ma senza fretta, doveva pulire i… maleodoranti ricordi lasciati sul pavimento. Io mangiavo i cibi che mi ero portata da casa nella stanza adibita a classe.
Io cucinavo su un piccolo fornello, spesso erano maccheroni che condivo con olio e parmigiano. Un giorno trovai la bottiglia dell’olio vuota. Sorpresa, lo dissi a Rosina e lei tranquilla rispose:-Ce l’avevo poi detto che lo prendevo io!” ,e questo fu tutto. Dormivo su un divano nell’aula accanto alla parete che mi divideva dalla chiesa. Non so perché, ma il pensiero della chiesa di notte mi faceva paura. Non bastava immaginare la pacifica chioccia che covava le sue uova nell’acquasantiera per adattarsi alla strana normalità di quell’ambiente. Una notte ebbi freddo e chiesi a Rosina se aveva una coperta da darmi. “Certamente! Ce la porto subito”, trillò festosa. Si allontanò e ritornò con un drappo rosso di cotone damascato che don Giulio soleva mettere sotto la statua della Madonna nei giorni di festa. Naturalmente continuai ad avere freddo, ma dovevo accontentarmi delle bislacche soluzioni di Rosina.
ll giorno in cui venne in visita il Vescovo Rosina preparò un ricco pranzo e andò tutto bene perché per l’occasione le galline furono chiuse nel pollaio e l’asino legato a un albero nel prato.
Il mese di supplenza passò presto perché Rosina ne aveva sempre una nuova da fare e da scoprire e, nonostante tutto, la sua voglia di vivere era contagiosa. Il motto che più le si confaceva era: “Non prendertela mai e vivi felice"..
ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ
Da Fiori di Banco
-Il sole di quest'anno è molto illuminoso.
-Io ci passo volentieri per quella strada e lei sembra che sia contenta e al passare di tutti pare che sorrida.
-Ciaccomino voleva fare una corpecciata di mermellata ma si pentì e voltò le spalle all'ingressione.
NNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNN
Una compaesana in trasferta negli anni 40
Il suo primo parto
La bimba, ultima di tre fratelli, nacque il giorno di Natale e, com’era prevedibile, le fu messo il nome di Natalina. Fu l’unica dei suoi fratelli a studiare per seguire la sua vocazione che era quella di far venire alla luce tanti bambini, la levatrice.
Nel 1942 Natalina vinse il concorso in una regione dell’Italia del sud dove dovette trasferirsi insieme al suo entusiasmo e alla sua capacità di adattamento. Erano tempi grami e le famiglie, specie in quella zona, vivevano nella miseria, in miseri alloggi. Persone e animali a stretto contatto. Ricordava con commozione il suo primo giorno da levatrice. Nella casa sul monte trovò la partoriente circondata da tante donne, parenti e amici e un mulo attaccato dietro la porta che scalpitava innervosito dalla presenza di tanta gente. La miseria pareva aver dipinto le pareti di grigio. Pendevano dalle travi non salsicce e prosciutti, ma solo trecce di cipolle e collane di rossi e piccanti peperoncini. Non c’erano sedie per tutti, ma a quella gente sembrava non importasse. Attendevano appoggiati alle pareti e chiacchieravano a bassa voce tra di loro. Alcune donne recitavano il rosario a Sant’Anna, protettrice delle partorienti. Natalina fece bollire dell’acqua, sempre con un occhio al mulo che temeva potesse slegarsi. Non c’era legna grossa, solo paglia e qualche bacchetto. Disinfettò un catino versando poche gocce di alcol e avvicinò un bacchetto acceso. Prima che la fiamma brillasse, una donna si era tolta il grembiule e aveva coperto gli occhi del mulo perché non si imbizzarisse. Mentre aspettava che l’acqua si intiepidisse, Natalina voltava le spalle al mulo per trovare un po’ di rimedio alla sua paura e parlava con chi le era vicino. Quando stava per sollevare da terra il catino, si accorse che l’acqua era molto diminuita.. Tutti i presenti negarono di averla buttata via. Il mistero si risolse quando ad un tratto sbucò belando da sotto il letto un agnello. Si capì subito che era lui il colpevole. In quel momento, la novella levatrice, non poté fare a meno di pensare al suo professore della Scuola di Ostetricia di Firenze e alle sue raccomandazioni sull’importanza e sul rispetto dell’igiene… Per fortuna il bambino nacque sano e non ci furono problemi né per lui né per la giovane mamma.
Natalina non vide l’ora di allontanarsi da quella casa piena di gente e soprattutto dal mulo. L’aria fresca della mattina le carezzò la fronte sudata e si senti tanto felice per quel bimbo che, anche col suo contributo, si era aggiunto all’Umanità. Scese saltellando il monte con la gioia che, nonostante la stanchezza per le ore di sonno perduto e per l’emozione, rendeva le sue gambe leggere e rinnovava la sua energia. La campagna,il mondo, le sorridevano e tutto intorno a lei sembrava più lucido e luminoso. Alzò al cielo una preghiera di ringraziamento e si senti più leggera di un uccellino. ‘Ce l’ho fatta!’- ripeteva a sé stessa, ‘Ce l’ho fatta!’- e da allora le sue mani, sempre più agili ed esperte, aiutarono tanti bimbi ad affacciarsi alla vita.
£££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££
Da Fiori di Banco di Ada Trerè Ciani
-Gli Etruschi quando moriva un comandante scolpivano dei vasi e glieli mettevano lì e Porsenna si meravigliava molto.
-Sfortunatamente la mia carabina si è rotta e non fa più quel ciocco insordibile.
-Dopo una lieve discussione Romolo prese Romolo e lo ammazzò.
£££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££££
La fiera dell’ Ascensione
L’arciprete Cantagalli ricordava la grande fiera dell’Ascensione fin dai primi numeri di Voce Amica negli anni 20. E avvertiva: “Nel venerdì, essendo la fiera tradizione di Fognano, è tolto l’obbligo dell’astinenza”, e lo ripeteva ogni anno.. Ancora nel 1933 scriveva: “È una fiera che ricorda quelle rinomate dell’anteguerra che animava il paese per tutta la giornata”.
Le fiere si svolgevano ogni terzo venerdì del mese e continuarono fino alla fine degli anni 50. Poi, per l’esodo dei contadini dalle colline verso la Bassa e del traffico che continuava ad aumentare, le fiere cessarono segnando la scomparsa anche di quella più rinomata dell’Ascensione.
Una parentesi:Risentimenti e rivalità tra Fognanesi e Brisighellesi
Nella cronaca di un curioso evento tra Brisighellesi e Fognanesi per una questione sul diritto alla raccolta dei fiori di tiglio, diritto che veniva assegnato mediante asta a gruppi di operai riuniti in cooperativa, si fa riferimento alla suddetta fiera già nel 1908. Quell’anno l’asta per 78 tigli, fissata dall’Amministrazione Comunale in lire 250, era stata maggiorata di lire 90 rispetto all’anno precedente. I Fognanesi si indignarono e l’asta andò deserta. Il Comune il giorno della fiera mandò quattro cantonieri a raccogliere i fiori, ma questi, vista la grinta dei Fognanesi, ritornarono precipitosamente a Brisighella. Dice il manifesto del tempo: “Il giorno dopo si compiva l’azione vergognosa. Protetti da 200 soldati, dalla cavalleria, dai carabinieri ecc. 40 crumiri che hanno disonorato il proletariato brisighellese, schernendo e minacciando i Fognanesi, compivano la raccolta dei fiori ormai andati a male e di scarso valore ". E così termina: ”I Fognanesi non dimenticano.”
Per fortuna, il tempo ha sbiadito odi, risentimenti, rivalità e i Fognanesi hanno dimenticato, preferendo una vita calma e tranquilla alla rissa e al risentimento.
.A Fognano le fiere erano un richiamo per contadini, sensali e compratori di bestiame e di merci. La fiera del bestiame si teneva nel “Mercato”, così era chiamato comunemente e genericamente il piazzale di Foro Boario (letteralmente Piazza dei Buoi), quello dove ora ci sono la vasca, i giochi per i bambini ed è divenuto Parco Pietro Montuschi. Era una distesa di tigli fra i quali si giocava a pallone, alle bocce e dove una volta si è fermata anche una piccola compagnia viaggiante, Il Carro di Tespi, che recitò svariati pezzi di bravura, tipo “La fiaccola sotto il moggio” di D’Annunzio, riscuotendo un buon successo. Ci passavano i carri che portavano il grano al mulino di Amleto Casadio e “Balena” rimetteva in sesto le trebbiatrici. Davanti al forno fu anche allestita una piattaforma di legno per coppie ballerine. Un altro mondo, insomma. L’evento più rinomato, però, rimaneva la fiera e soprattutto quella dell’Ascensione.
Il mercato si riempiva di buoi e mucche fino all’inverosimile. Era una selva di lunghe corna che spesso sconfinava anche nel viale verso il piazzale della stazione ferroviaria. Molti di quegli animali avevano affrontato un lungo cammino attraverso colline e monti prima di arrivare. Scendevano da Monteromano e oltre, da Cavina, da Monte Mauro. Prima di essere introdotti sotto i tigli, i bovini stanchi ed assetati, dovevano attraversare una specie di bassa vasca piena di polvere bianca, penso fosse calce, per disinfettarsi gli zoccoli. I compratori arrivavano dalla Toscana, ma soprattutto dalla Bassa Romagna. Cominciava allora il lavoro dei sensali, una specie di pantomima, fra avvicinamenti e allontanamenti tra compratore e venditore, ognuno dei quali rifiutava, o fingeva di rifiutare, il prezzo proposto dall’altro. I sensali parlavano in disparte con ambedue cercando di avvicinare il più possibile le proposte, poi prendevano la mano destra dell’uno e dell’altro e cercavano di accostarle fra loro per siglare così l’accordo. Se le mani si stringevano, il sensale, tenendole strette tra le sue, le alzava e le lasciava cadere di colpo. L’affare a questo punto era concluso. I bovini venivano fatti salire sui camion, magari torcendo impietosamente la coda ai recalcitranti, e portati via. Una volta si raggiunse addirittura la cifra di oltre 600 capi presenti.
Proprio di fronte al Mercato c’era la trattoria “Da Ugo”. Fin dai giorni prima della fiera, fervevano i preparativi. La mia mamma preparava il ripieno per i tortelli. Mazzi e mazzi di erbette venivano lavate, cotte, strizzate, tritate, mescolate con uova, parmigiano e la sopraffina ricotta ovina, racchiusa in frasche di faggio o in foglie di felci, proveniente dai pascoli dell’Appennino. Alle prime luci dell’alba del venerdì, con l’aiuto di qualche compaesana, le sfoglie venivano stese una dopo l’altra e col ripieno venivano trasformate in tortelli che quelli della Bassa chiamavano “Urciò”, orecchioni. Tolti gli scuretti interni delle finestre, su di essi, coperti da candide tovaglie, venivano allineati in lunghe file. C’erano poi da cuocere le interiora dell’agnello e l’agnello in umido coi piselli. Prima di lasciare il Mercato, erano pochissimi quelli che non entravano nella trattoria per gustare un piatto di tortelli conditi solamente con una manciata di forma appena grattugiata. Intanto il Mercato si andava via via svuotando, tra muggiti, vociare e rombi di motori. Restava nell’aria un forte odore “ agreste” e per terra molto lavoro per gli spazzini…
********
La ghiacciaia
Ho saputo da un protagonista che Ugo dava a due bambini un secchio con alcune bottiglie (gazzosa, chinotto, aranciata...) da portare attraverso la folla e venderle. Perché si mantenessero fresche,aggiungeva un pezzo di ghiaccio. Si trattava proprio di un "pezzo" che staccava dal filone di ghiaccio che teneva nella "ghiacciaia". Questa era un mobiletto di legno, foderato di lamiera, che si apriva dall'alto sollevando il coperchio. Le bibite, collocate all'interno, si mantenevano fresche.Questo compito era affidato a un filone di ghiaccio posto all'interno. Quando si era quasi sciolto,il babbo andava a prenderne un altro a Faenza. Uno dei bambini, ora anziano, ricorda ancora molto bene come si divertiva e la mancia che riceveva.
L'introduzione della ghiacciaia fu un progresso. Infatti, prima di averla, Ugo riempiva un secchio di bottigliette, legava una corda al manico e lo calava in un pozzo,con coperchio raso terra, che era nel cortile. Tirarlo su ogni volta per prelevare bibite e farlo scendere, richiedeva uno sforzo non indifferente.
DDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDD
Da FIORI di BANCO
-Galileo era un astronomo e praticava anche la professione di meccanico studioso e così ogni tanto inventava qualcosa. Pensava: " Se io metto tante lenti in un culo forse potrò scrutare il cielo". Con molta pazienza infilò le lenti e quando venne la sera guardò le stelle e vide che era la terra che girava intorno al sole.
-Nacque un Maometto che si chiamava Camegliere e predicò un cristianesimo che era un'altra religione
DDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDD
.
La festa dell'Ascensione
(particolari da Facebook)
La stanza del mistero
La porta era in fondo al corridoio dove un tempo si trovava l’asilo del convento. Spesso con altri bambini provavo a guardare attraverso il buco della serratura ma non riuscivo a vedere assolutamente nulla. Ogni tanto arrivava ciabattando con le sue pantofole suor Matilde, piccola, rotondetta, cesto vuoto al fianco. Ci faceva segno di allontanarci con un gesto della mano poi infilava la chiave nella toppa. Penso di aver cominciato allora a credere che le Suore avessero il potere la prodigiosa abilità di appiattirsi come acciughe. Infatti suor Matilde filtrava attraverso la stretta apertura impedendoci di dare un solo sguardo all’interno. Appoggiavamo l’orecchio alla porta: solo silenzio e forse odore di topi e di salciccia. Ad un certo punto suor Matilde filtrava come una carta velina dalla stanza, chiudeva la porta a doppia mandata Io immaginavo che andasse a parlare coi topi mi sembrava che il suo viso assomigliasse proprio al musetto di un topo. Il cesto, col suo misterioso contenuto coperto da un panno bianco, si allontanava cullato dal passo dondolante della suorina, lasciandoci lì a rimuginare, con quello strano odore nelle narici e il mistero della stanza irrisolto.
Forse suor Matilde parlava veramente coi topi e riusciva a farsi ascoltare? Nessuno mi diede mai una spiegazione e io non ne chiesi. Preferii che tutto rimanesse cosi per anni, come una istantanea sfocata di un momento particolare della mia vita quando la mia mente infantile ricamava le cose di fantastici ghirigori.
╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚ı╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚╚
Da Fiori di Banco
-Dissero i Frati a Gregorio:- Il Papa devi essere tu.- E lui accettò e fece mandare i duoi uomini a dirlo in quasi tutta l'Italia.
-Federico lo so anch'io che vinse : lui aveva i cannoni e le colibrine che era una morte istantanea...
-Francesco II si era rifugiato nella fortezza di Capua con il suo esercito di 50.000 soldati mentre quello di Garibaldi era di 25.000 soldoni.
222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222222
Ca’ di Bacco
Uscendo dall’edicola, ho incontrato nella piazza di Fognano Francesco, un amico che non vedevo da mesi. Come è successo che abbiamo cominciato a parlare dell’ultima guerra? A quel tempo era un bambino e viveva in un podere, al di là del fiume Lamone, con i nonni. Ha una buona memoria e grande rispetto, ammirazione e nostalgia per il nonno Michele. Anch’io ricordo molto bene Michele. Era un uomo corpulento, pacifico, calmo, lento a parlare, che veniva spesso al paese. Esiste un detto “scarpe grosse e cervello fino”, che si riferisce alla gente inelegante ma intelligente e di buonsenso come tanti contadini e lui ne era un esempio. Era acuto e aveva la strana abitudine, quando parlava, di non guardare mai il suo interlocutore negli occhi. Forse era una sorte di timidezza ma il sorriso, la sua partecipazione alla conversazione, la sua perenne calma e le parole di saggezza che uscivano a tratti, rendevano i suoi discorsi lucidi e interessanti. Allora io ero una bambina, ma ora vorrei dire che era un filosofo. Indossava un gilet e il suo petto era attraversato da una catena lucida che finiva in un taschino laterale dove custodiva un orologio, che era stato il dono di suo padre quando Michele aveva raggiunto la maggiore età (21 anni).
Sua moglie Rosina, piccola, minuta, quattro figli, vestiva un abito lungo con l’immancabile grembiale davanti e un foulard sopra i capelli a treccia e arrotolati sulla nuca. Amava tanto il pollame e gli altri animali del suo vivace cortile, pronta a rimproverare chiunque se uno scherzo di cattivo gusto veniva fatto a un animale danneggiandolo o spaurendolo. Se a qualcuno accadeva di gettare un sasso a una gallina che aveva sconfinato oltre la linea permessa e stava beccando i chicchi di mais seminati, Rosina lo rimproverava e ripeteva come in una predica che gli animali erano creature che meritavano molto rispetto e che dovevano a loro, insieme al raccolto e alla frutta, se potevano vivere con tranquillità. Era inevitabile che prima o poi quella stessa gallina diventasse nutrimento per la famiglia, ma Rosina, dopo la cattura, le faceva una carezza come per chiedere il suo perdono. La fattoria si chiamava Ca’ di Bacco e procurava tanti prodotti della terra. Oltre a grano, orzo, uva e olive, c’erano due alberi da frutto di ogni qualità, in modo che ad ogni stagione non mancava mai la frutta del momento.
Una volta andai a Ca’ di Bacco con mio padre che, insieme ad altri operai, seguiva la trebbiatrice da un podere all’altro. Un trattore metteva in moto la trebbiatrice mediante una puleggia. Ogni operaio aveva il suo compito. Chi era sopra, infilava fasci di spighe dentro una botola, dal retro uscivano i chicchi di grano, la pula e la paglia. La polvere, che riempiva l’aria, si attaccava alle facce sudate degli operai e la paglia veniva ammucchiata intorno a un tutore, una pertica piantata per terra, per formare, strato dopo strato, il pagliaio. Tutti lavoravano di lena e a mezzogiorno, sotto il grande pero, dove in un buco abitava una civetta, Rosina imbandiva una lunga tavola. Per un po’ il trattore taceva e piano piano la polvere si depositava e spariva l’odore della nafta. Rosina serviva un gustoso pranzo che ridava forza ed energia agli operai. I fiaschi di vino si vuotavano velocemente, volavano le battute e tutti erano allegri. A me sembrava una bellissima festa.
Era tempo di guerra e aerei tedeschi e alleati spesso solcavano il cielo. Quando si sentivano arrivare i bombardieri tedeschi, tutta la famiglia si rifugiava nella grande cantina nel sottosuolo e Francesco si sdraiava sotto la grande botte da 400 litri di vino. La saggia nonna Rosina aveva vicino al letto un lungo bacchetto sottile con una strana bandierina triangolare in cima. Al rombo degli aerei, chiamava Francesco e gli chiedeva di correre nella sua camera a prendere quel bacchetto. Era un rito che si ripeteva ogni volta e la bandierina veniva piantata in bella vista davanti alla porta di casa. Diceva la nonna: “Sta’ tranquillo, Francesco. Quando gli aerei vedranno bandierina faranno dietrofront e se ne andranno via”. La bugia della nonna ha preservato Francesco da tante paure.
qqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqq
Da Fiori di Banco
-Le case del mondo sono diverse da diverse parti. Per esempio la casa del negretto è abitata da una sola stanza. Il grattacelo americano è fatto di tante camere in alto e anche qualcuna in basso.
-Nel campo dell'Arciprete hanno buttato giù due peschi che facevano le mandorle.
-La mia mamma è corta e ribusta.
qqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqqq
FATTI DI PAESE
Erano gli anni prima della seconda guerra mondiale. Castellina era un piccolo villaggio formato da due file di case separate da una strada piuttosto stretta. Le finestre, contrapposte, sembravano guardarsi curiose e osservare i passanti, i carri e i carretti in transito, praticamente unici mezzi di trasporto. Ci vivevano tante famiglie perché alla maggior parte di esse bastava poco spazio, una camera e una cucina. Nonostante questo, gli abitanti non raggiungevano le 230 anime. Comunque, vantava un orologiaio, un forno, un negozio di alimentari, un macellaio, e anche un tabaccaio. Naturalmente scarsi erano gli introiti e parecchi i debiti segnati in un libretto, ma si viveva di poco. Gli uomini si arrangiavano lavorando in campagna, le donne contribuivano come potevano accudendo i figli e occupandosi della casa.
Joy e l’amore
Joy era una bella donna, formosa ma con tutte le curve al posto giusto. Era simpatica, sorridente, accattivante, attirava lo sguardo degli uomini e l’invidia delle donne. Il marito era andato a lavorare in Germania, ritornava molto di rado e Joy accettava la corte degli abitanti maschi. Sempre ben vestita, portava i guanti anche d’estate, un vezzo che forse la faceva sentire distinta ed elegante come una vera signora. Evidentemente le mancava molto l’amore e la sua casa ogni sera accoglieva l’ammiratore di turno. Le mogli sapevano delle avventure dei loro mariti, ma erano loro che comandavano in famiglia, perciò erano costrette a mandare giù il rospo. Una sera, uno di loro che voleva che la sua visita rimanesse nascosta, uscendo al buio dalla porta di Joy fu colpito dalla sfortuna, inciampò e ruzzolò sui gradini trascinando dei vasi di fiori che si ruppero. Naturalmente il fracasso svegliò tutto il vicinato. Oltretutto si ruppe anche una gamba e la sua avventura si tramutò in una disavventura di cui il paese parlò a lungo con divertimento.
IL Fattaccio
A quei tempi i possessori di ricchezza erano considerati superiori, intoccabili talvolta perfino dalla legge. C’era nel villaggio una grande villa circondata da un alto muro. Il padrone possedeva molti poderi. Lui e la sua famiglia non partecipavano alla vita del paese, non si mescolavano, rimanevano all’interno della villa. Molti non li conoscevano nemmeno di vista. Avevano assunto Osvaldo, un uomo del paese che era buono, infaticabile, discreto e povero, perché si occupasse della stalla e di un toro a cui ricorrevano i contadini quando volevano far ingravidare le mucche. Qualche volta Osvaldo poteva portare con sé il figlio undicenne per far giocare il figlio del padrone. Un giorno il ‘signorino’ si impadronì della pistola del padre, scherzando mirò al compagno di giochi e sparò. Il ragazzo morì sul colpo. Che cosa successe poi? Tutto doveva rimanere nascosto per non guastare la tranquillità della villa. Il padrone chiese al povero e straziato Osvaldo di tacere e, in cambio del suo silenzio, gli promise il lavoro a vita e lui che aveva altri figli da mantenere, accettò perché quel lavoro gli era indispensabile. Non ci fu denuncia dell’accaduto e non si videro funerali. Poco tempo dopo, gli abitanti della Villa, traslocarono e vennero sostituiti da altri.
E bech salé- Il Becco salato
Circa a metà del villaggio c’era un muretto che limitava un piccolo spiazzo. Quello era il luogo di ritrovo pomeridiano delle donne. Il loro passatempo era, come si suol dire, tagliare i panni addosso agli altri. Passavano di bocca in bocca notizie su questo o quello, appuntamenti segreti, movimenti sospetti, litigi in famiglia, vizi e virtù. Un buontempone mise a quel luogo il nome di “Bech Salé’ a significare tutto quello che di pruriginoso e pettegolo usciva dalle bocche “salate” di quel consesso.
Castellina, negli ultimi trent’anni, si è spopolata. Non esistono più i negozi; le finestre sono chiuse, il Becco Salato rimane sempre deserto; la strada, percorsa da auto, camion e motori, sembra ancora più stretta. I suoi 40 abitanti attuali non riescono a dare al villaggio che un flebile soffio di vita.
sssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss
Da Fiori di Banco
-Camillo Benso fu invitato in Francia ad un congresso e parlò molto bene che fece rimanere tutti di stucco e conclusero che se gli Austriaci attaccavano i Piemontesi bene si no la Francia se ne fregava.
-Brenno e Pirro erano due Barbari adulti.
-Una volta i libri erano molto cari perché i poveri monaci chiusi nei conventi non riuscivano a fabbricare molte coppie.
sssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss
Una delusione a quattro anni
È passato tanto tempo eppure qualcosa è rimasto nella mia memoria. Ben poco, lo riconosco. Ricordo una stanza dell’asilo con due finestre e una vetrata, una vetrinetta con tante belle cosine fatte coi ‘pirucelli’, cioè arrotolando le stelle filanti. Il meccanismo dei ricordi si sa come funziona, se sono lontanissimi, bisogna che abbiano avuto su di noi un effetto particolarmente incisivo ed importante. Altrimenti si sarebbero cancellati insieme a tanti altri. Quello che mi è rimasto, ha lasciato un’impronta triste, di una tristezza proporzionata all’età che avevo allora. Adesso fa solo sorridere o meglio fa solo tenerezza.
A mezzogiorno, dopo aver mangiato ciò che ciascuno di noi aveva portato da casa nel suo cestino, era d’obbligo dormire. La stanza veniva messa in penombra socchiudendo le persiane e noi, seduti al nostro banco, dovevamo appoggiare la testa sulle braccia e abbandonarci al sonno. Suor Anna Maria, seduta presso una finestra dalla quale filtrava un po’ di luce, lavorava e sorvegliava. Aveva l’abitudine di premiare ogni giorno uno di noi, permettendogli di giocare vicino a lei. Forse si trattava del buono del giorno, forse era quello che aveva acquisito meriti degni di nota. Questo non lo ricordo, ma mi è ancora chiara la mia spasmodica attesa di una volta in particolare. Con la testa appoggiata sulle braccia, stavo con tutti i sensi all’erta. Ad occhi semichiusi seguivo la suora che si muoveva tra i banchi per dare un tocco leggero sulla testa del fortunato di turno. Senza dubbio molti altri, nella speranza di ricevere quel tocco , fingevano di dormire ma eran desti. La suora avanzava silenziosamente abbassando una testa, sistemando un braccio penzolante, facendo segno di tacere a chi aveva ancora qualcosa da dire. Quando l’abito bianco frusciò sfiorando il mio banco, ero rigida come il legno. Non muovevo muscolo ma ero pronta a scattare. Probabilmente quel giorno ce l’avevo messa tutta e mi pareva di essere stata così buona che più buona non si può. Avevo perciò la sensazione, quasi la certezza, che quel tocco leggero sarebbe stato proprio per me. Il cuore accelerò i battiti, il respiro restò sospeso, ma la suora passò oltre e sentii alzarsi il prescelto. Senza sollevare la testa, lo guardai mentre riceveva una meravigliosa scatola di legnetti e si sedeva per terra a giocare vicino alla suora. A un certo punto, la tensione alla quale avevo sottoposto me stessa, si allentò e per la stanchezza i miei occhi si chiusero. Forse la mia delusione fu compensata da un bel sogno, ma di questo purtroppo non ricordo nulla.
rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
Da Fiori di Banco
-I Vandali si chiamavano anche Vandalismi perché fracassavano tutto.
-Le scimmie quando vedono il leone che va a caccia si passano la voce così tutti scappano. Allora il leone furbo si squaccia nell'erba così si credono che non c'è più e invece c'è.
-C'erano le zanzare Anofele che facevano venire la malaria e allora gli uomini morivano. Un giorno arrivarono gli ingegneri con la gru e ammazzarono Anofele.
rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
La mia Topolino
La mia Topolino si arrampicava su per le colline proprio come un topolino sulle travi di un granaio. Si sentiva che era felice perché il suo motore cantava allegramente. Forse si pavoneggiava anche mentre, senza esitazione, affrontava salite, discese e curve finoa Monteromano e oltre fino a Croce Daniele dove insegnavo. L’accompagnavano gli sguardi di pacifiche mucche nei campi e il canto delle allodole ferme nell’aria. Non la turbavano l’attraversamento improvviso di un capriolo o di una lepre né il volo di un fagiano. Quel mondo rurale le piaceva. Anche se era di metallo, si sentiva in sintonia con esso. Non temeva il fango delle strade, né le pozzanghere, né il greto di un fiume: era una macchina intrepida.
Un pomeriggio, mentre ritornavo da Zattaglia, vidi un uomo sulla strada che mi fece cenno di fermarmi. Mi chiese un passaggio e, naturalmente lo presi a bordo volentieri. Dopo vari chilometri, quando arrivammo all’incrocio con la strada statale, a San Francesco, mi chiese di farlo scendere. Ci salutammo, lo lasciai lì e proseguii verso casa. Poco dopo suonò il campanello e mi trovai davanti il maresciallo dei carabinieri. Mi chiese se avevo dato un passaggio a un uomo. Seppi da lui che era un ladro in fuga e lo stavano cercando. Non c'era piu traccia di lui. Forse aveva trovato un auto o un camion e si era allontanato. I carabinieri tentarono un inseguimento fino a Faenza. Furono pochissimi i chiarimenti che potei fornire, ma l’avventura rimase nei miei ricordi.
Non fu la sola, né per me né per la Topolino. Il fatto successe in un tratto di strada dritta sulla cresta della collina. Vidi sbucare il motore del parroco del luogo, don Marangoni, sul suo Galletto. Stupita mi resi ben presto conto che veniva contro di me. D’istinto accostai la macchina al bordo della strada da dove i campi scendevano piuttosto ripidi. Ciò che temevo successe. Il motore cozzò contro l’auto e dal finestrino laterale vidi passare in volo orizzontale la sagoma nera del prete. Scesi con la paura di trovarlo sulla strada ferito o peggio. Invece si era già rialzato e si stava scuotendo la polvere dalla tonaca. Forse fu la fatalità oppure un momentaneo malessere, ma un Santo in quel momento gli era venuto in aiuto..
Il passaggio a un ladro in fuga e un prete in volo con atterraggio fortunato furono le prime esperienze straordinarie di viaggio vissute da me e dalla Topolino.
sssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss
Da Fiori di Banco
-Il paladino Orlando fu assalito dai Pirenei e fu sconfitto.
-Le compagnie di ventura erano dette "Mercenari " perché quando passavano da un paese o per una città saccheggiavano tutte le merci.
-Venezia cominciò male perché i palazzi erano povere capanne di legno. Dopo un po' i Veneziani costruirono altri palazzi di marmo come la Piazza di San Marco.
-Bucintoro giunto in mezzo al mare disse :-Noi ti sposiamo mare!- E poi se lo sposava con l'anello.
sssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss
La zia avara
Paolino rimase vedovo con quattro figli ancora piccoli. Era benestante, possedeva case e poderi che gli assicuravano una rendita di tutto rispetto. In più, oltre ad occuparsi dell'amministrazione del suo capitale, faceva anche il sensale nelle fiere e nei mercati. Non poteva perciò occuparsi anche dei bambini, d'altra parte non si sentiva di farlo e nemmeno di affidarli a donne quasi sconosciute. Decise di prendere moglie un'altra volta. Non fu facile, ma ebbe la fortuna di trovare una donna disposta a prendersi cura di lui e dei suoi figli, Caterina. Era di piccola statura ma brava, solerte ed efficiente. Per quanto sembrasse molto improbabile, mise al mondo altri sei figli. Dall'aspetto non sembrava dovesse avere tanta forza e tanta resistenza, eppure lavorava tutto il giorno e accudiva la grande famiglia che contava otto femmine e due maschi. Alle figlie soleva ripetere con insistenza di studiare, voleva che avessero una vita migliore della sua e per sua fortuna il suo grande desiderio si avverò perché sei di loro ottennero un diploma o una laurea, la settima diventò suora, mentre la più piccola, che aveva qualche problema di salute, divenne l'amorevole compagna di tutte le altre.
Nel piccolo paese abitava la sorella della prima moglie di Paolino, una zitella con un discreto capitale. Questa insistè perché Paolino andasse ad abitare nella sua grande casa, non certo per aiutarlo occupandosi dei figli, ma, come si rivelò poi, col segreto pensiero che avrebbe potuto anche lei godere del lavoro di Caterina e dell'assistenza di tutti. Paolino alla fine cedette ed acconsentì a trasferirsi presso la cognata.
Il suo carattere bisbetico e la sua avarizia non tardarono a rivelarsi. Esigeva tutto dagli altri senza dare nulla in cambio. Non erano tutti suoi nipoti,ma tutti la chiamavano impropriamente zia. Non frequentava nessuno, usciva solo una volta a settimana tutta vestita di nero e andava a Messa, non nella chiesa del paese, ma in una piccola parrocchia al di là del fiume. Ritornava ogni volta zoppicando perchè le solite scarpe nere a punta e legate fino a mezza gamba, le torturavano i piedi. Possedeva un discreto capitale che però non usava per dare più agi alla sua vita. Nella casa l'acqua corrente non c'era e si adoperava quella del pozzo che si trovava in mezzo al cortile. Siccome lei abitava al primo piano, si affacciava, allungava il secchio vuoto con una corda e aspettava che qualcuno lo riempisse e glielo portasse. Ai bambini e ai ragazzi, non concedeva nulla, non li sopportava. Se uno di loro si arrampicava su un albero per gioco o per raccogliere un frutto, gli tirava addosso l'acqua che aveva usato per lavarsi le mani o per lavare i piatti. Al momento del raccolto delle noci, chiamava un uomo ad abbacchiarle e i bambini a raccogliele, ma vigilava perché era assolutamente proibito mangiarne anche solo una. In compenso dava loro le noci dell'anno precedente che, naturalmente erano diventate rancide.
L'unica persona che accettava e che le faceva visita era Maddalena che era stata per anni sua serva ed era diventata quasi cieca. La trattava con malgarbo e la tollerava solo perché era il suo notiziario quotidiano e, se ritardava un po', la sgridava. Maddalena passava prima dai cortili dove si radunavano le donne più ciarliere, ascoltava le novità rigardanti il piccolo paese, gli avvenimenti, le persone, i commenti e ripeteva tutto alla zia. Nonostante questo, la zia la teneva a una certa distanza, non la faceva entrare in casa sua, ma la riceveva sul pianerottolo dove aveva sistemato una panca a due posti.
La guerra portò via l'agiatezza della famiglia. I soldati avevano depredato i poderi di ogni cosa, degli animali, dei raccolti, delle riserve di cibo. Si iniziò a pagare le tasse sulle proprietà, anche se impoverite e poco producenti. I poderi si vuotarono poiché i contadini cominciarono ad abbandonari i poderi in collina per trasferisi verso la pianura.
Quando la zia si ammalò di tumore, Caterina l'assistè con solerzia e la servì per 4 anni seneza lamentarsi. Dopo la sua morte, si scoprì che nel suo testamento, redatto certamente la volta in cui un nipote, figlio di un fratello di Paolino, era venuto a prenderla con la sua macchina, aveva lasciato tutti i suoi averi a lui, anche la casa dove aveva voluto il trasferimento della famiglia di Paolino. Incredibile ma vero, il nipote, dopo soli due giorni dal funerale, cominciò il lavori di ristrutturazione e addirittura, a smantellare il pavimento della camera dove dormivano tre delle ragazze. La sera, per andarsi a letto, erano costrette a camminare su assi appoggiate sulle travi del pavimento e accertarsi di non mettere un piede in fallo. La casa dove Paolino si sarebbe trasferito era in costruzione e il nipote lo sapeva bene..
La zia avara ed egoista si era trovato un successore degno di lei.
dddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddd
Da Fiori di Banco
-Quando il coraggioso tagliò il ponte Porsenna si prese paura. Al vedere il coraggio di un Romano solo pensò:- Tanti Romani chissà che coraggio!- e se ne andò.
-Ai Lupercali potevano partecipare quelli che avevano la barba mentre quelli che non l'avevano erano chiamati inverbali.
-I Romani avevano un solo calendario che si trovava in Comune e serviva per quelli che dovevano pagare le tasse, la luce, l'acqua e per quelli che dovevano pagare i conti alla banca.
dddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddddd
.
PENSIERI e RICORDI
Quando ero molto più giovane, sentivo le donne anziane dire che l'invecchiamento richiede coraggio. Non capivo perché fosse necessario il coraggio. Adesso lo capisco molto bene. Per scoprire il significato di molte cose, è necessaria esperienza, meglio ancora, è necessario averle vissute personalmente. Nel corso degli anni, la vita diventa più difficile: movimenti più lenti, il solito lavoro più pesante, perdita dell'udito e della vista, riduzione della deambulazione, desideri insoddisfatti. Guardo le colline e penso a quando salivo per raccogliere fiori, o erbe spontanee o semplicemente per guardare il paese dall'alto. il panorama era molto bello e non resistevo a fotografarlo stando in mezzo agli olivi o ai fiori dei mandorli o dei ciliegi. Mi sono sempre piaciuti i piccoli abitanti che vivevano tra l'erba e le creature volanti. Li cercavo e li osservavo, seguivo i loro movimenti, quello che stavano facendo e spesso ho scoperto qualcosa di nuovo. È una passione che mi è rimasta, ma c'è una differenza: ora devo guardare le colline dal basso e ricorrere alla memoria e all'immaginazione.
Solo il cielo è rimasto lo stesso. Invece, il fiume è cambiato. Il suo flusso continuo nel corso degli anni ha logorato le rive e il suo letto non è più quello che era. I ciottoli lisci che coprivano le sponde e il suo letto sono scomparsi, saccheggiati dall'uomo per trasformarli in ghiaia. Il canale, che per tanti anni ha portato l'acqua al mulino e fatto girare le macine con molto rumore e polvere nell'aria, è scomparso. Anche l'acqua ha cambiato la sua voce? Non lo so perché lo guardo solo dall'alto, da dietro casa mia. Mi appoggio alla ringhiera e rimango lì a guardarlo e pensare. Vedo donne in ginocchio che lavano il bucato, sento urla terribili quando un bambino annegava. Succedeva.
Marco, un bimbo di tre anni, stava giocando sulla riva mentre suo fratello e suo cugino, adolescenti, stavano nuotando. Dopo qualche tempo, decisero di andare nel campo di fronte per raccogliere un grappolo d'uva. Marco continuò il suo gioco, ma forse aveva il desiderio di mettere la sua manina in quell'acqua che brillava al sole per prendere un'onda, ma cadde a testa in giù. Suo fratello e suo cugino, tornando, non lo videro più e fecero l'orribile scoperta: Marco era sul fondo.
Era il giorno dell'Ascensione, la festa del paese. Dario era un ragazzo di 14 anni. Immediatamente dopo il copioso pranzo festivo, dato che era una giornata calda, andò al fiume con i suoi compagni. Molto imprudentemente, si tuffò ma non emerse più. I suoi compagni lo cercarono tra le pietre del fondo. Quando lo tirarono fuori, il suo cuore non batteva più. Forse aveva avuto una sincope. Dopo la notizia, come una grande ombra, la tristezza scese sulla festa del paese.
Ora basta. Voglio allontanare questi tristi ricordi e penso a quante volte ho visto la luna specchiarsi nell'acqua e galleggiare, ondulandosi sopra la corrente come se giocasse con lei, e quante volte ho cercato di fissare la chiazza liquida del sole che accecava lo sguardo...
(I fatti sono veri, i nomi sono inventati)
Ritorno al presente. La vita di ciascuno è un libro non scritto che io, nonostante tutto, sono tanto fortunata da poterlo ancora sfogliare.
♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣♣
Da Fiori di Banco
-Taranto disse ai Romani: non ci venite a disturbare! Per un po' ottennero la pace ma dopo videro che Napoli era ricca e bella e allora i Romani ci pizzicavano un po' perché i Romani volevano che Roma fosse sempre la più ricca di tutto il mondo. I Romani andarono contro Taranto. Quelli di Taranto videro le navi e le affondarono e dissero: cosa abbiamo mai fatto...adesso bisogna prepararsi per la guerra. E così fu proprio come dicevano.
hhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Un’incredibile sorpresa
Mi accorgo di avere la caratteristica che accomuna tante persone della mia età che è quella di voltarsi indietro e ricordare. In fondo, che male c’è? Non è disdicevole se il ricordare non ci procura un doloroso rimpianto e non ci rattrista. Ciò che è successo durante una lunga vita è un cospicuo elenco di eventi. Credo sia importante scegliere di richiamare alla mente quelli che hanno caratterizzato periodi, giorni o anche momenti brevissimi, ma che non ci addolorano, anzi ci fanno tenerezza o addirittura ci fanno sorridere e ci divertono. Viviamo le difficoltà di oggi, non angustiamoci anche per il passato.
Ero una giovane insegnante, una di quelle che cominciavano il loro cammino acquisendo esperienze, pratica e punteggio, mandati nelle scuole di campagna sulle colline. Le “Scuole” erano in ogni parrocchia. Consistevano in una sola stanza presso un contadino o un parroco, dove gli scolari che frequentavano erano di varie età, dalla prima classe alla quinta e per questo erano chiamate pluriclassi. Ero già stata in diverse scuole di quel genere. Mi ero sempre trovata bene, anche se con tanti disagi, ma ero giovane ed entusiasta. Niente mi spaventava, né il raggiungerle camminando per qualche ora a piedi, preferendo i sentieri più faticosi che ne accorciavano un po’ la distanza rispetto alla strada. Specialmente d’inverno ero costretta a fermarmi presso il contadino a causa della neve che cancellava tutto e non lasciava più distinguere il percorso. Dormivo in letti di fortuna, spesso tremando di freddo per mancanza di riscaldamento. Succedeva spesso che certi giorni c’ero solo io presente perché i bambini non avevano potuto raggiungere la scuola. Quando, dopo 5 anni, fui nominata a Zattaglia, un villaggio situato sul fondo valle dove c’erano un edificio scolastico con tre aule e la presenza di tre insegnanti, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Presi la patente e comprai da un anziano medico la sua piccola auto quasi nuova. I miei colleghi, Piergiorgio e Romana, venivano ogni mattina da due diversi paesi della pianura. Per loro si trattava di percorrere una quarantina di chilometri senza dislivelli, mentre io ero la più vicina, ma dovevo salire e scendere le colline per otto chilometri. Fu subito grande cordialità fra di noi, ci sentivamo fortunati e felici. Per tutti e tre era un importante passo avanti nella nostra carriera.
L'edificio scolastico sorgeva su un prato delimitato da un ruscello allegro e canterino dall' acqua trasparente, felice di far risaltare i ciottoli colorati del suo letto. Sulle sue sponde erano cresciuti alberi comuni (chiamati popolarmente Nosô, Nocioni, Noci selvatici) il cui nome scientifico era Ailanthus, nome mai sentito prima, ma possedevano anche nomi molto più prestigiosi come Alberi del Cielo, Alberi del Paradiso, Alberi degli Dei. Non so per quale motivo, non certo per una loro particolare bellezza. Era forse perché i semplici, i poco apprezzati sulla terra, sono lassù in cielo i più benvoluti, gli eletti? Imparai poi che erano alberi molto diffusi, addirittura infestanti, invasivi e dalle loro foglie, al tatto, si sprigionava un odore sgradevole. Gli Inglesi infatti lo chiamavano Stink Tree. Il loro nome erano dovuto al motivo della crescita: potevano raggiungere l’altezza di 25 metri che li “avvicinava” al cielo.
Una mattina, entrando nella mia aula ancora vuota, ebbi una sorpresa che mi lasciò col fiato sospeso. Le pareti erano tappezzate di grandi farfalle che non avevo mai visto prima. Stavano ferme, con le loro ali spiegate, come se meditassero o aspettassero un segnale. Forse era così perché, dopo una sosta che continuò per qualche minuto mentre trattenevo il respiro e non osavo muovermi, presero il volo una dopo l’altra e, passando attraverso le sbarre delle finestre aperte, si diressero verso gli alberi del ruscello. Forse avevano atteso quel misterioso segnale per tutta la notte. Mi rammaricai parecchio di non aver potuto condividere con nessuno lo stupore di quello spettacolo stupefacente. Naturalmente, appena possibile, cercai sui libri come si chiamavano quelle farfalle grandi e belle e da dove erano arrivate.
(primi anni 60)
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
L’Attaco, detta anche Samia, è una farfalla notturna con un’apertura alare di ragguardevoli dimensioni, compresa tra i nove e i sedici centimetri. La sua storia italiana inizia molto tempo fa, esattamente nel 1854, quando la produzione della seta era in pieno boom. Con l'allevamento dell’Attaco, si cercò un'alternativa al baco da seta e così i loro bombici furono importati dall'Asia. In Italia fu introdotto anche l'Ailanto, l'albero asiatico alla base della loro alimentazione. L'iniziativa fallì presto in quanto la qualità della seta prodotta era di scarsa qualità, non aveva la lucentezza di quella del bombice del gelso.
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
Aggiungi il tuo testo...
Da Fiori di Banco
-Il Comune è una cosa semplice e anche facile.Se uno vuol portarsi l'acqua in casa con un tubo fa la domanda. Se la domanda viene accettata dicono che può mettere l'acqua nel tubo e attraversare la strada.
-Il ranocchio è un girino che ha perso la coda diventando adultero.
6666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666666
Il galletto e il topolino
Favola raccontata da Nonna Laura
(più di 100 anni fa)
C’erano una volta un topolino e un galletto amici tra di loro. Un giorno decisero di andare in cerca di noci. Cammina cammina arrivarono proprio sotto un bellissimo noce ben carico di frutti.
Disse il galletto: -Chi sale sul noce?
-Io, rispose il topolino. Sono agile, svelto e so come fare.
-Va bene, disse il galletto, ma ricordati di buttarmi la mia parte.
-Sta tranquillo, disse il topolino, ne faremo una bella scorpacciata. E salì svelto sul noce.
Le noci erano belle, fitte e piene di gherigli squisiti. Il topino ne raccoglieva una, la rompeva coi suoi dentini e la mangiava senza pensare più al galletto che aspettava di sotto. Sulla testa del gallettino piovevano solo dei gusci e il gallettino si arrabbiava sempre di più.
-Buttami una noce! Buttami un gheriglio! , pregava,ma il topolino non gli badava. Quando ebbe la pancia piena e fu sazio di noci il topino scese dal noce.
- Adesso ti arrangio io,- gridò il galletto- e quando gli fu vicino gli dette una beccata in testa che gli lasciò il buco. Il topino corse via stridendo:-Cii, cii…
Andò difilato a casa del medico e si raccomandò:- Medico, mirimedico, mi medichi il mio capo che il galletto mi ha beccato?
Il dottore rispose:-Certo, ma mi vuole prima un po’ di pelo di cane da mettere sulla ferita.
Il topolino scappò via e andò dal cane: -Cane miricane,mi daresti un po' di pelo da portare al mirimedico perché mi curi la ferita?
_Io ti do il pelo ma prima portami un po' di pane che sono affamato-
Il topolino scappò via e andò dal forno: -Forno miriforno, mi daresti un po’ di pane da portare al miricane che mi dia un po’ di pelo da portare al mirimedico che medichi il mio capo?
_Sicuro, disse il forno- ma mi vuole la legna per cuocerlo-
Il topolino continuò la sua corsa e andò dal bosco: -Bosco miribosco, mi daresti un po’ di legna da portare al miriforno che mi dia un pò di pane da potare al miricane che mi dia un po’ di pelo da portare al mirimedico che medichi il mio capo che il galletto mi ha beccato? –
-Sì, te la darò ma prima ho bisogno di un po’ di concime. –
ll topolino corse dalla vacca e la pregò: -Vacca mirivacca, mi daresti un po’ di cacca da portare al miribosco, che mi dia un po’ di legna da portare al miriforno che mi dia un po’ di pane da portare al miricane che mi dia un po’ di pelo da portare al mirimedico che mi medichi il capo che il galletto mi ha beccato? –
- Io te la darò ma prima ho bisogno di un po’ d’erba fresca. -
Il topino andò dal prato: -Prato miriprato, mi daresti un po’ di erba fresca da portare alla mirivacca che mi dia un po’ di cacca da portare al miribosco che mi dia un po’ di legna da portare al miriforno che mi dia un po' di pane da portare al miricane che mi dia un po’ di pelo da portare al mirimedico che medichi il mio capo che il galletto mi ha beccato? -
- Te la darò -disse il prato- ma bisogna che prima tu mi innaffi bene. Ci vuole un po’ d’acqua. -
Il topino andò dal pozzo: -Pozzo miripozzo, mi daresti un po’ d’acqua da portare al miriprato che mi dia un po’ di erba da portare alla mirivacca che mi dia un po’ di cacca da portare al miribosco che mi dia un po’ di legna da portare al miri forno che mi dia un po’ di pane da portare al miricane che mi dia un po’ di pelo da portare al mirimedico che mi medichi il capo che il galletto mi ha beccato?
-Certo che te la darò. Ti darò tutta quella che vuoi, ma tu vieni a prenderla. –
Il topino saltò sull’orlo del pozzo, si aggrappò alla corda e scese giù, giù…Il pozzo era profondo e quando finalmente il topino arrivò all’acqua non sapeva dove metterla. Allora ne bevve tanta e tanta che non fu più capace di salire. Scivolò nell’acqua e annegò.
(Altro finale: ne bevve tanta e tanta che diventò tondo e pesante e non fu più capace di salire su per la corda. E’ ancora laggiù in fondo al pozzo e tutte le volte che la corda scende fa cii cii cii… )
hhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Da Fiori di Banco
-I pericoli della casa sono che se uno batte in uno spigolo può farsi il murlone o una baragnoccola.
-Quando viene la pioggia l'acqua del fiume si fa torva.
-Carlo Magno quando morì divise tutti i sudditi in tre parti.
yyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyyy
Il 2 Novembre Commemorazione dei Defunti
Ecco perché io aborro alzarmi e uscire quando è ancora buio.
Tra le varie usanze paesane ce n’era una della quale, da bambina, temevo fortemente l’arrivo. La mattina del 2 Novembre non c’erano scuse, ci si doveva alzare molto presto per andare a messa e lasciare libero il letto affinché i defunti potessero nel frattempo goderne il tepore e il conforto. A disturbarmi profondamente non erano solo la levataccia e il pensiero che un morto dormisse nel mio letto, ma l’odore che aveva l’aria nel buio del mattino, un odore che nessun altro sentiva. Nel tempo ho capito che si trattava di una reazione psicologica, ma allora dovevo coprirmi il naso e premere la sciarpa contro di esso. Il percorso da casa alla piccola Chiesa del Suffragio era una vera sofferenza che nemmeno l’odore del tessuto di lana riusciva a mitigare. La Chiesetta era gremita di Fognanesi soprattutto in piedi dato il poco spazio e c’era chi, per devozione, ascoltava tre messe di fila. Il mio sollievo arrivava solo quando il buio lasciava il posto all’alba.
vvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvv
Da Fiori di Banco
-Una volta i libri erano molto rari perché i poveri monaci chiusi nei conventi non riuscivano a fabbricare molte coppie.
-Garibaldi fu chiamato anche l'erore dei due mondi.
-A Milano c'è una nebbia folliginosa che deriva dalle parole inglesi smoke e fog.
rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
Curiosità in pillole
Ghino, grande amico del mio babbo, un giorno gli decantò la bellezza della moglie, mediante canoni di bellezza tutti suoi... Ecco ciò che Ghino confidò orgogliosamente all' amico:" T'evdess com l'ajè satta pan. L'è totta péeera". (Vedessi com'è sotto gli indumenti, è tutta paaari" ), allungando le braccia in avanti tenendo le due mani a coltello, cioè verticali e parallele, disegnava con enfasi nell'aria l'uniformità del corpo di sua moglie.
♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫
Spachì, detto anche S-ciaplatt, un ometto piccolo e sempre sorridente, veniva nell'osteria e ordinava un quartino di rosso. Quando aveva riempito il primo bicchiere, tirava fuori dal taschino del corpetto un tozzetto di pane secco, lo inzuppava nel vino e lo mangiava con gusto. Era molto affezionato alla sua asinella, la Giangrina, che, attaccata a un carretto, gli serviva per portare legna o altri pesi. Ogni tanto ripeteva il suo intercalare solito: La Giangrina la bat e tac, tichetitic tichetitac.
♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫
Quando la mia mamma mi vedeva poco impegnata nelle faccende che mi affidava, mi ripeteva la filastrocca della Pigrizia:
"La Pigrizia andò al mercato/ ed un cavolo comprò,/mezzogiorno era suonato/ quando a casa ritornò./Cercò l'acqua,
accese il fuoco,/si sedette e riposò/ ed intanto a poco a poco/ anche il sole tramontò./ Così persa ormai la lena/
sola e al buio ella restò/ ed a letto senza cena/ la meschina se ne andò".
Funzionava per risvegliare in me il desiderio di darmi da fare? Non lo so, ma evidentemente mi colpiva ,
visto che dopo tanti anni la filastrocca è ancora pesente nella mia mente...
♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫ ♫♫♫♫♫♫♫♫
Un'altra antichissima favola di nonna Laura
in dialetto
( Non mi risulta che si possa dire " Il pulce", ma concediamo questa licenza
alla bella favola)
E pols e la polsa
Il pulce e la pulce
O j era ona volta on pols e ona polsa ch'j se vleva tant bé.
On dé la la polsa la j eva d'andé ai merché. La j eva mass so la pignata per fer e brò e alora
la gè ai pols:" Ercorte ed bader ala pignata e ed s-ciumerla premma che e brò o balla".
"Va bé, sta tranquella che a j badarò" o gè e pols. La polsa la s'eviè.
C'erano una volta un pulce e una pulce che si volevano tanto bene
Un giorno la pulce doveva andare al mercato. Aveva messo su la pentola per fare il brodo,
allora disse al pulce:"Ricordati di di badare alla pentola e di schiumarla prima che il brodo bolla."
"Va bene, stai tranquilla che ci baderò,"disse il pulce. La pulce si avviò.
A on zert moment e pols o vos guardè ala pignata e l'andè per s-ciumè e brò con la mascla.
O cavè e querce e l'andè per s-ciumè e brò con la mascla, o sfulghè, o caschè dentre a la pignata
e o s'inghè. La polsa la tornè straca emazeda e la s' smetè a ciamè e pols. Zerca zerca la ne trovè.
La cavé e querce ala pignata e la vdè che o j era dentre mort. Alora la cmenzè a pianzre e a disperes.
" Mo cos'et fat da rugè ecsè fort?" " o j cmandè l'oss. "Perché l'è mort e pols! L'è mort e pols! " o rugè la polsa.
" Ah sè? L'è mort e pols, la polsa la grida e me am voj sbatre" e l'oss o cmenzé a sbatre come on mat.
La finestra, ch' la j era sreda, a sentì tot cl ermor la cmandè:"Oss, set mai fat da sbatre ecsè?"
"E pols l'è mort, la polsa la grida e me a sbat"
Ad un certo momento il pulce volle guardare alla pentola e andò per schiumare il brodo col mestolo, scivolò,
cadde dentro la pentola e annegò. La pulce tornò a casa stanca morta e si mise a chiamare il pulce.
Cerca, cerca non lo trovò. Levò il coperchio alla pentola e vide che era lì dentro morto.
Allora cominciò a piangere e a disperarsi. " Ma che cosa hai fatto da urlare così forte?" le chiese l'uscio.
"Perché il pulce è morto! E' morto il pulce! " gridò . "Ah sì? E' morto il pulce, la pulce piange e
io mi voglio sbattere" e l'uscio cominciò a sbattere come un matto. La finestra, che era chiusa,
a sentire tutto quel rumore, chiese: "Uscio, che cos'hai mai fatto da sbattere così?" "Il pulce
è morto, la pulce piange e io sbatto".
"Alora me am voj ervì" e la finestra la s'ervè onca s' l'era on frad boia. On car ch' l' era elè satta
o s' maraviè e o j cmandè: " Com' ela mai, finestra, che te t' sé ervida?"
" Te ne sé ? E pols l'è mort, la polsa la grida, l' oss o sbat e me am so ervida."
"E me am voj eviè, " o gè e car e o s'eviè ecsè da per sè. O pasè satta a on pér ch' oj cmandè:
"Come mai te t' sé evié?" " E pols l'è mort, la polsa la grida, l' oss o sbat e me am so eviè".
"E mè am voi sché", o gè e pér e o se schè."
"E allora io mi voglio aprire." E la finestra si aprì anche se era un freddo cane.
Un carro, che era lì sotto, si meravigliò e le chiese:" Come mai, finestra,ti sei aperta?"
" Non lo sai? Il pulce è morto, la pulce piange, l'uscio sbatte e io mi sono aperta."
" E io voglio andarmene," disse il carro e s'avviò così da solo. Passò sotto un pero
che gli domandò:" Come mai te ne sei andato?" " Il pulce è morto, la pulce piange,
l'uscio sbatte, la finestra si è aperta e io mi sono avviato." '
"E io mi voglio seccare". disse il pero e si seccò. Un giorno passò di lì una cinciallegra e si
meravigliò che il pero fosse secco. Gli chiese: " Pero, come mai ti sei seccato
così all'improvviso?" "Il pulce è morto, la pulce piange, l'uscio sbatte, la finestra
si è aperta, il carro si è avviato e io mi sono seccato."
"E me am voi plé". E la paronzlena la s' plè nuda neda. Pu l'andè a bé a ona fontanena.
La fontanena la j cmandè: " Come mai te t'se pleda ecsè?" ,
"Perché e pols l'è mort, la polsa la grida, l' oss o se sbat, la finestra la s'è ervida, e car o s'è eviè,
e pér o s' è schè e me am so pleda." "Alora me am voi sughè", e la smetè sobte ed butè aqua.
On pastor, ch'o porteva sempre e lè el su chevre a bé, vdandla sacca, o j cmandè:
" Fontanena, com' èla te t'se sugheda?"
" E io mi voglio pelare" E la conciallegra si pelò del tutto. Poi andò a bere a una fontanina.
La fontanina le chiese: Come mai ti sei pelata cos'?" Rispose:
"Il pulce è morto, la pulce piange, l'uscio sbatte, la finestra
si è aperta, il carro si è avviato, il pero si è seccato, la cinciallegra si è pelata
e io mi sono asciugata." Un pastore che portava sempre lì le sue capre a bere,vedendola
inaridita, le chiese:"Come mai, fontanina, ti sei inaridita?"
"E pols l'è mort, la polsa la grida, l' oss o sbat, la finestra la sè ervida, e car o sè eviè
e per o s'è schè, la paronzlena la s'è pleda e me am so sugheda." " Alora me a voj
tajé e col a toti el chevre! " o gè e pastor. Ona chevra però la riuscè a scapé e la
s'andè a infilè tla tona d'ona voip. Quand che la voip la s' tornè a ca la vleva entré tla tona,
mo la sentè ona voslona paurosa ch'la la cmandè: " Chi è là?"
" Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta e una bistorta.
Se vieni qua ti buco il corpo!" Via la voip ch'la scapè dispereda. La s'incontrè
on cagnaz: " Mo s'et fat da scapè ecsè?" o j cmandè. E la voip: " Om s'è infilè
enimalaz t' la tona e an gne pos piò andè dentre. "Va là va là," o gè e cagnaz.
"Ades a j pens mè a mandel veia" e o se s'esviè vers la tona dla voip.
"Il pulce è morto, la pulce piange, l'uscio sbatte, la finestra
si è aperta, il carro si è avviato e io mi sono inaridita." Allora io voglio tagliare
il collo a tutte le capre",disse il pastore. Una capra però riusci a scappare
e andò ad infilarsi nella tana di una volpe. Quando la volpe ritornò a casa,
voleva entrare nella tana ma sentì una voce paurosa che diceva:
"Sono la capra ferrata con cento corna in testa, una torta, una bistorta, se
vieni qua ti buco il corpo." E la voipe scappò via. Incontrò un cagnaccio:
"Volpe, ma cosa hai fatto da scappare così" le domandò.
E la volpe :" Mi s'è infilato un animalaccio nella tana e non ci posso più andare dentro."
" Valà valà," disse il cagnaccio, "Adesso ci penso io a mandarlo via" e s'avviò
verso la tana della volpe.
"Chi è là?" o cmandè. "Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta e una bistorta.
Se vieni qua ti buco il corpo!". Via e cagnaz ch'o scapè con la voip dré. I s'incontrè on lop.
"Mo dov'èl ch' andì ecsè ed furia" o j cmandè e lop e luietre i j contè e fat. " Ades a j vegh me" o
gè e lop ch'o feva peura a tott j enimel de bosch e pu onca ai s-cé. " Chi è là?" o gè e lopp con
ona vos ch'la feva tremè i sass. "Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta e
una bistorta , se vieni qua ti buco il corpo." " Om se spies mo ...i tu aferie te ti sbrigh te,"
o gè e lop e o scapè com on mat. La voip la se slontanè da la tona e la s' metè a pianzre.
O j volè atorne on moscò, o si posè elè bsè e o j cmandè: " Mo set fat voip ch'an t'ò mai vesta
ecsè evilida?" La voip la j racontè e fat. E moscò o pareva ch'o s divertess on mond. A la fé o i gè:
"Vanme a insignè la tona ch'a j pens mè" " Mo sa vot fej tè ecsè pzinè com t'sé?" " Te insegnme
la tona," l'insistè e moscò. Quand ch'o fo alà o fè la solita cmanda e la chevra la j rugè la solita
ersposta: "Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta e
una bistorta ,se vieni qua ti buco il corpo." "Ah sè" o gè e moscò ch'on s'era gnoca scompost, "Ades
a vdiré" .O s'infilè per on busené, l'andè dentre a la tona, o s'mitè satta la coda dla chevra e
o cmenzè a ronzé piò fort ch'o poteva "Vvvvvv! Vvvvvv! Vvvvvv! La chevra la s 'ciapè ona
peura ch' la scapè fora dla tona come on raz e forsi forsi la carr incora.
La voip la tornè tla su tona. A la morel pensei pu da per vuietre
"Chi è là?" chiese. "Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta
e una bistorta.
Se vieni qua ti buco il corpo!" Via che il cagnaccio scappò con la volpe dietro.
Si incontrarono un lupo. "Dov'è che andate così di fretta?"gli chiese il lupo e
loro gli raccontarono il fatto.
"Adesso ci vado io", disse il lupo che faceva paura a tutti gli animali del
bosco e poi anche ai cristiani.
"Chi è là?" disse il lupo con una voce che faceva tremare i sassi.
"Sono la capra ferrata con cento corna in capo, una storta e una bistorta.
Se vieni qua ti buco il corpo!" "Mi spiace ma...i tuoi affari te li sbrighi tu",
disse il lupo. La volpe si allontanò dalla tana e si mise a piangere. Le volò
intorno un moscone, le si posò lì vicino e le chiese :" Che cos' hai fatto,
volpe, che non ti ho mai visto così avvilita? "
La volpe gli raccontò il fatto .Il moscone pareva che si divertisse un mondo.
Alla fine le disse:" Vienmi a insegnare la tana che ci penso io , insistette
il moscone. " Ma cosa vuoi fare tu che sei così piccino? "Tu insegnami
la tana" Quando fu là fece la solita domanda e la capra gli urlò la solita
risposta : "Sono la capra ferrata con cento corna in testa, una storta,
una bistorta, se vieni qua ti buco il corpo." "Ah sì?", disse il moscone
che non si era neanche scomposto," Adesso vedremo." Si infilò per
un buchino, andò dentro la tana, si mise sotto la coda della capra e
cominciò a ronzare più forte che poteva "Vvvvvv!Vvvvvv! Vvvvvv!
La capra si prese una paura che scappò fuori della tana come
un razzo e forse forse corre ancora. E la volpe ritornò nella sua tana.
Alla morale pensateci voi.