Piazzetta di San Pietro, salita verso la Chiesa senza gli attuali gradini. (1800)
INDICE
- Allevamento dei bachi da seta
- Gli zolfanelli (I zuifne)
- I cordai
- Il "calcestruzzo"
- Il barbiere
- L'Aemilia Ars, un tipo di ricamo
- Bambine apprendiste
- L'uva dell'Arciprete
- Un asilo particolare
- La Bell' Anna
- Il mulino elettrico di Amleto
- Il mulino ad acqua di Chichê
- Il pollivendolo
- Don Battista Cantagalli
- Quanti anni ha Fognano?
- L'interno della chiesa parrocchiale nel '600
- Galleria fotografica: Foto di Fognano
- Il Dott. Giuliano Trerè
- Ricordando il Dott. Giuliano
- La Vcêna del scherp (La vecchina delle scarpe)
- Una domanda per i Fognanesi
- Pietro Tedioli detto Marèla
- La levatrice nello sfollamento
- La grande battaglia aerea del 25 aprile 1941
- Ada Ciani: un vero personaggio
- Galleria fotografica: foto libri di Ada Trerè Ciani
- Miracolo a Fognano
- La Madonna delle Grazie
- Il distributore di benzina e miscela
- La nascita del Parco Montuschi
- Il carnevale del 1975
- Galleria fotografica: disegni del carnevale
- Antiche usanze carnevalesche Fognanesi
- I braccianti
- Uomini braccianti, e le donne?
- I Fognanesi volanti
- Da Ivan Samorè
-La Lapide a Mazzini e Garibaldi
-La Locanda
-Le Società Operaie di Mutuo Soccorso sia maschile che femminile
-Novembre 1885-Articolo "Da Fognano" pubblicato dal Lamone, periodico di Faenza
-Da Il Lamone: La gita della Società e due annunci pubblicitari dell'epoca.
-Foto bimbi dell'Asilo del 1967
-Bicentenario della Madonna delle Grazie
- Ci ha lasciati Pinê
A FOGNANO
Questa pagina presenterà personaggi, luoghi, abitudini di ieri e di oggi. Chi vive qui e non è troppo giovane, ricorderà persone citate, mestieri perduti, tempi di ristrettezze. Un piccolo mondo ormai scomparso insieme a tanti dei protagonisti, un mondo incredibile agli occhi dei giovani, dove la miseria regnava accettata con rassegnazione, insieme alla fatica, ai sacrifici, alle rinunce.
DATE STORICHE
1361- approssimativamente 385 abitanti insieme a Quarneto
1400- costruzione di un ospedale-ospizio per i pellegrini
1573- per liberarsi dalla sottomissione a Pieve in Ottavo ottenne il fonte battesimale
1601-comincia il registro dei battesimi
1647-Fognano chiede inutilmente un mercato al venerdì
1831- ottiene il riconoscimento della completa autonomia in campo religioso
1804/1816- è comune di terza classe nel periodo napoleonico
!827/1860- è Appodiato o Secondiario
Trai due periodi, gli vengono riconosciute due richieste:
1621- la scuola pubblica
1826-il medico condotto
1842- solo allora gli viene riconosciuto il mercato al venerdì
1850-1288 abitanti suddivisi in 234 nuclei familiari
1855-scoppia un'epidemia di colera in tutto il territorio comunale.
Nella sola Fognano, in soli 6 giorni, miete 104 vittime
1903/1906- un comitato di 25 fognanesi si adopera per ottenere
la creazione di un comune autonomo,ma inutilmente;
il primo tentativo era stato fatto nel 1849
1927-ottiene la Delegazione comunale per gli Atti Civili
1944- dal settembre bombardamento aereo (4 bombe sull'abitato), la caduta di
molte granate e la distruzione dei ponti sul Rio Bagno e di quello di Ghiozzano
1953-viene aperta una succursale della scuola Media Ugonia
Censimenti : Nel 1900: 264 famiglie- 1111 abitanti
Nel 1950: 322 " - 1257 abitanti
Nel 1978: 413 " - 1382 abitanti
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L'allevamento dei bachi da seta
Nel 1999 siamo venuti a Fognano da Santo Stefano quando avevo 7 anni e quasi tutte le domeniche pomeriggio andavo dalle Suore. Facevamo la tombola, ma io non ho mai vinto niente.Il regalino mi toccava solo quando c'era per tutte. Più che altro stavo con Luisanna Bandini, Nene Benericetti, Antonietta Savorani, Ines Ragazzini. C'era anche Antonietta ed Sporbiò. La mia mamma ci teneva molto che facessi la mia bella figura e mi mandava vestita bene. Mi faceva fare il vestito da Rosa di Tabacò e mi metteva il cappellino. La differenza tra me e le altre bambine la vedevo nel fatto che le altre erano più libere di giocare. Anche a casa potevano stare fuori, in cortile, quanto volevano, invece io no perché ero la maggiore di tanti fratelli. La mia mamma era una santa donna ed anche molto organizzata. Eravamo 12 in famiglia e lei stabiliva turni di lavoro tra me e mia sorella Marisa . Una settimana a fare le camere e stirare, e una settimana in cucina ad aiutare a preparare i pasti.
Verso il 1945, subito dopo la guerra, il mio babbo aveva preso in affitto due stanze nella casa colonica del dottor Bassani in foro Boario, vicino alla casa dove abitavamo, e allevava i bachi da seta. Io dovevo staccare le foglie di gelso dai rametti, che il babbo portava a sacchi, per darle ai bachi. A volte dovevo spostare i bachi che mi facevano tanto ribrezzo. Non avevo tempo quindi di andare con le altre e pensavo:" Almeno morissero tutti!" Avevo 13 anni.
(Liliana Samoré)
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Molti compaesani a quei tempi allevavano i bachi da seta su stuoie impilate in una stanza della casa. Il ciclo,dalla nascita al bozzolo, durava 45 giorni. La vendita dei bozzoli procurava un introito utile alla famiglia. Per questo, quando si faceva un progetto per una spesa, si diceva.- Eh, se mi van bene i bachi... (Eh, s'om va bé i bigatt...)
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Gli zolfanelli (I zuifne)
Qualcuno dei più anziani ricorderà che in fondo alla discesa per andare a Ghiozzano c’era il macello, un edificio a un piano, con un’ampia facciata e una grande porta d’ingresso sopra la quale era stata collocata una testa di bue in terracotta. Subito oltre il macello, cominciava un campo dove si coltivava la canapa .La canapa è una pianta erbacea a ciclo annuale la cui altezza varia tra 1,5 e 6 metri. Quando le alte piante arrivavano a maturazione, tagliate e legate in fasci, venivano lasciate seccare e poi immerse per qualche giorno in una vasca dietro il mulino di Chiché. Le foglie, marcendo, spargevano nell’aria un odore molto sgradevole, un tanfo irrespirabile. Era l’unico macero della zona, perciò anche altri coltivatori portavano lì i loro fasci. Le fibre della canapa si ammorbidivano e cominciavano a staccarsi dai gambi. Per staccarle completamente, venivano battute con un arnese chiamato ‘gramola da canapa’
Era un lavoro di braccio molto faticoso. Il fusto, bianco e tondo, cadeva a pezzi. Le lunghe fibre venivano pettinate con grossi pettini, simili a rastrelli, finché non diventavano lisce e omogenee,formando una massa lieve e voluminosa. Il cascame, cioè i fili più corti o mal riusciti, formavano la stoppa usata per avvolgere nelle tubature dove c’era una perdita di acqua, per rendere stagne le congiunzioni delle tubature idrauliche e, incatramata, per calafatare il fasciame delle imbarcazioni. I pezzi bianchi e secchi dei fusti, si dividevano per il lungo in quattro o più parti,poi si bagnava una loro’estremità nello zolfo fuso e diventavano ‘i zuifne’ (gli zolfanelli), rudimentali fiammiferi. Si accendevano strisciandoli su un pezzo di carta vetrata o accostandoli a una brace rimasta tra la cenere del caminetto.Generalmente stavano in un buco apposito all’interno del camino chiamato ‘e bus di zuifne’, il buco degli zolfanelli.
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A proposito del macello dove si macellavano soprattutto bovini, capitava che venisse portato anche un animale incidentato, per esempio un bovino azzoppato o gravemente ferito per essere caduto in dirupo, in un fossato. In quel caso la sua carne veniva calmierata, cioè veniva venduta al dettaglio a prezzo ridotto. C'era una stanza subito dietro la torre dell'orologio di Piazza Garibaldi, dove i macellai tagliavano quella carne e la vendevano a prezzo ribassato. La voce si spargeva velocemente in paese: "In piaza i vand la cherne trabalzeda!" La gente accorreva e in breve i pezzi migliori erano venduti, ma anche il resto della carne, avvolta nella tipica carta gialla, spariva dentro le sporte. Non ne sono sicura, ma mi pare che ci fosse un limite: un chilo o due per ogni famiglia.
La carne "trabalzeda" era un gradito contributo economico alla mensa della gente e una felice occasione di mangiare la carne che appariva raramente sulle tavole.
Sopra la facciata del macello, c'era la testa in terracotta di un bue. Mi pareva tanto bella col suo colore rossastro e la guardavo sempre quando avevo occasione di passarle davanti. Sembrava che anche il bue mi guardasse di lassù.
C.C.
I cordarê ( I cordai)
A Fognano ce n'erano due: Pasquale e Pietrino,i fratelli Farina. Erano due bravi artigiani. Si sistemavano coi loro attrezzi e la canapa lungo il vicolo Casette, dove abitavano. Ricordo di averli visti una volta lungo il muro del Convento tendere le corde dal podere Casino fino a fianco del Parco della Rimembranza. L'edificio della Scuola Elementare non esisteva e a lato della strada c'era il campo del Casino con filari e viti. La lavorazione della canapa passava dalla gramolatura a quella della filatura. Poi procedevano attorcigliando la canapa in una specie di sottili trecce che poi univano e torcendole insieme formavano la corda.
Il loro lavoro era molto importante perché costruivano artigianalmente le corde per i contadini che se ne servivano per legare i covoni del grano (i belz), i carichi di fieno, le fissavano alle nasiere dei buoi per guidarli nel campo,le agganciavano alla martinicca per frenare i carri e i birocci ecc.
Questa corda, lunga circa due metri o
più, era quella che chiamavano "e belz"
del quale non ho trovato la traduzione
in Italiano. Serviva soprattutto per legare
i covoni del grano o i fasci di erba.
Il "calcestruzzo"
Prima della seconda guerra mondiale cominciai a lavorare per el Tignolen e per le Farolfi che davano il ricamo. In tempo di guerra andai da Minghina e Isolina Sangiorgi a San Francesco a imparare da magliaia. D'inverno andavo su con le scarpe di mio fratello. C'erano anche Lisa di Tabacô e Laura Bentini. Imparammo a fare i calzini per i soldati al fronte e ne facemmo tanti. Per questo ci diedero anche il supplemento del pane: mezzo etto in più. Più tardi mi comprai la macchina da magliaia da Acquistapace di Ravenna. Quando venne a portarmela, vide che avevamo un mucchio di patate in casa. Meravigliato, mi chiese: " Ma chi se le deve mangiare tutte quelle patate?" Con le patate facevamo molto spesso una pietanza che io chiamavo "il calcestruzzo"perchè era piuttosto duro. Ricordo ancora le numerose teglie preparate lungo le settimane. Lessavamo le patate, poi le passavamo, ci mettevamo sopra della marmellata e le portavamo al fornaio che le metteva in forno. Avevamo Gigino piccolo e il pane lo lasciavamo per lui e per babbo e noi mangiavamo il "calcestruzzo". E così passava l'inverno.
(Rosina Pierantoni)
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L'inverno aggiungeva alla miseria un colore ancora più scuro, perché mancava anche il lavoro nelle campagne. C'era chi tendeva trappole per prendere dei passerotti, che erano numerosi e cercavano cibo vicino alle case; c'era chi aveva una soffitta dove si rifugiavano dei piccioni e cercava di catturarli. Uno stufato di patate col rosmarino e un po' di pancetta tritata, se c'era in casa, era già una buona cena. Si bagnava il pane nel sugo di pomodoro che la mamma aveva preparato in estate e messo nelle bottiglie. Forse fu allora che nacque il detto: "Tutte le cene portano a letto".E domani si vedrà...
C.C.
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Il barbiere
Iusafat era un uomo piccolo e rotondetto che abitava in via Ciani e faceva il barbiere. Andava nelle case dove lo chiamavano e sua moglie Ortensia ,coi capelli tagliati, riempiva i cuscini. E pensare che allora c'erano spesso i pidocchi! Si era negli anni 1920. La mia mamma a farrmi tagliare i capelli mi mandava sempre da Cesira, la zia di Mentore Mazzotti, che prendeva 10 soldi o una lira. Quella volta però volli andare da Iusafat che abitava vicino a noi. Avrò avuto 10 anni e purtroppo mi rapò come un maschio. Quando mi videro, i miei mi presero in giro, mi canzonavano "Fonsat , on sac ed bolatt" oppure "Testa pelata faceva i tortelli" e io mi vergognavo anche ad uscire.
Le Suore, il 2 di ottobre , che era l'anniversario dell'inaugurazione del Convento, ogni anno avevano l'abitudine di farci un po' di festa. Nel teatro c'era la premiazione della dottrina e un dono per tutte, oltre a 5 marroni bolliti ciascuna. Quell'anno mi regalarono un cappello di paglia con un fiore da una parte. Avranno pensato che avrei potuto coprirmi la testa rapata, ma non lo portai mai.
(Alfonsina Mondini)
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Da bambini quando trovavamo una lumaca chiusa nel guscio, prendendola in mano, le dicevamo cantilenando: Lumèga, lumega, matt fora quatre corne, onna per me, onna per te, onna per e gli aque da Forlè (Lumaca, lumaca, metti fuori quattro corna, una per me, una per te, una per le acque di Forlì)
La lumaca, alla fine, stanca di stare all'interno del guscio, tirava fuori la testa, ma le "corna" erano naturalmente quattro, non tre. Che cosa ci entravano le acque di Forlì? Chi lo sa. Chi inventava le filastrocche non guardava per il sottile...
C.C.
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L' Aemilia Ars
Con Bianca Della Verità e Pierina Gondoni andavamo da Paolina ed Fumè a imparare "l'Aemilia ars", che chiamavamo emiliàs, un particolare tipo di pizzo che si fa con l'ago seguendo il disegno su cartoncino. A fare merenda, andavamo al fiume, mettevamo i piedi nell'acqua e mollavamo nella corrente quei quadratini di cartone.
Tutti gli anni si cambiava scuola, forse perchè le insegnanti si liberavano volentieri di noi...
In seguito,con Mariulì ed Savino, sono andata da Pasquina, detta Pacò, che lavorava da sarta, mentre suo fratello Costante faceva il barbiere. A volte preparava la ciambella e ci mandava al forno Samorè, in Foro Boario, per la cottura. Arrivate nel viale, ci sedevamo su una panchina e dalla teglia, col dito, ce ne mangiavamo un bel po'. Naturalmente l'impasto era crudo, ma ci piaceva ugualmente. Le nostre marachelle non finiscono qui. Pasquina aveva un sottoscala dove teneva il prosciutto. Ogni tanto ci facevamo una puntatina di nascosto e lo tagliavamo con le forbici.
Chi avrebbe potuto sopportarci a lungo?
Carla Montuschi
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Un aneddoto che riguarda il babbo di Pasquina, Ruféll, che faceva il falegname nella stessa sua casa. Una notte la moglie lo scosse e lo svegliò spaventata. "Rufell, Rufell o cônta la zvatta!" (Rufillo, canta la civetta! Seccato per essere stato svegliato, le rispose brusco:" Sa vot ch'la sona l'organé?" (Cosa vuoi, che suoni l'organetto?")
Al tempo, molti erano convinti che sentire cantare la civetta portasse male.
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"Un certo don Graziani"...
Le Suore aprirono una Scuola di Ricamo per giovanette nel 1901 e don Graziani, che ne aveva sollecitato l'apertura, venne ricordato con gratitudine dalle ragazze che composero una canzoncina:
"Un certo don Graziani/ venuto da lontano/ propose alle Suore/ di aprir la scuola alle esterne./ Le Suore acconsentirono/ la scuola fu aperta/ ed era frequentata/ da dodici alunne./ E dopo poco tempo/ son diventate cento/./ La razza delle esterne/ è razza molto forte/ per chi la toccherà/ pericolo di morte".
Tra le prime 12 frequentanti c'erano le due sorelle Tedioli che poi si fecero suore (suor Maria Amalia e suor Maria Tecla), Minghina Lanzoni delle Casette, le sorelle Farolfi, " el Tignolen" ecc.
C.C.
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Subito dopo la prima guerra mondiale
Subito dopo aver fatto la terza elementare con la maestra Baldoni e la maestra Cantoni durante la prima guerra mondiale, andai a imparare il ricamo dalle Suore. Eravamo tante, di diverse età Quando, non ricordo perché, le Suore non presero più le bambine esterne, andai da Ida Cavalli che aveva la scuola di ricamo nella casa a sinistra prima del ponte. Poi ho ricamato per le signorine Farolfi che davano il lavoro da fare a casa.
(Celide Paganelli Cornacchia)
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Aforisma
Il cucito è la prosa dei lavori femminili; il ricamo la poesia. (Anonimo)
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L'uva dell'Arciprete
Con Mariulì, Antonietta della Lea ed Erminia Ronconi andavamo a rubare l'uva da tavola dell'Arciprete Cantagalli. Aveva qualche vite dietro "il Vaticano" ( nome dato dai Fognanesi alla casa fatta costruire da Monsignor che era in Vaticano a Roma) , in cima al vicolo Casette, dove una volta c'era il cimitero. Eravamo giovani e molto allegre. Ci siamo divertite sempre e per tanti anni.
(Carla Montuschi)
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Un indovinello popolare molto semplice si riferisce a un frutto difficilmente indovinabile:
Zequ'êl, zequ' ôss mo l'an n'è bona ed salter e fos ( Cinque ali, cinque ossa, ma non è capace di saltare il fosso)
E' la nespola: le ali sono le 5 alette che sono sotto al frutto,
le 5 ossa sono i semi che ha dentro.
C.C.
Un asilo particolare
Da piccola, prima che andassi alla Scuola Elementare, mi mandavano da una vecchia che chiamavano" La Bell'ôna " (la Bell'Anna) che abitava da sola nel vicolo Casette. C'erano anche altri bambini. Ci faceva sedere su degli sgabelli tutt' intorno alla stanza e ci dava da fare delle strisce di maglia coi ferri (detta la ligaza), ci raccontava qualcosa e ci faceva pregare. Andavamo la mattina e ritornavamo a casa a mezzogiorno.
Una mattina la trovarono morta e io saltavo dalla contentezza perché non dovevo più andarci, ma la mia mamma non mi fece neanche entrare in casa: mi accompagnò dalle Suore con la bacchetta.Non avevano ancora l'asilo (era prima del 1920) ma tenevano ugualmente i piccoli.
(Rosina Pierantoni)
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La Bell'Anna
La "Bell' Ôna" era alta, di pelle scura, brutta. Tutti l'avevano soprannominata La Bella Anna proprio per la sua bruttezza. Era zitella e viveva in una sola stanza. Lì, accoglieva i bambini che metteva a sedere su due panche. La pipì si faceva nel vasino e lei la gettava poi nella buca, dalla finestrina sul dietro. I gabinetti allora non c'erano e la gente vuotava tutti i rifiuti nelle fosse, o buche, che servivano per produrre il letame, il concime per le vigne. C'erano vari bambini del 1911 come Franco Cornacchia, mia sorella Ancilla, Pilade Billi e altri. Faceva fare 'lo scappino' a maglia e credo proprio che lo facessero anche i maschi. Morì improvvisamente all'incirca nel 1921.
(Alfonsina Mondini)
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Altri tempi. A differenza di quei bimbi costretti a tenere i ferri da calza in mano, Io sedevo sulle ginocchia della mia mamma che mi faceva saltellare mentre recitava una filastrocca strampalata: Tirlindena pô graté / matme a let ch'a so emalé. / Cosme on ov con ona poipatta / ch'a faré balé Rosatta. / E Rosatta la balarà / e su omne o cantarà. / O cantarà piô piô / ch'o ne senta e barbagiô. / E barbagiô l'è spassa a l'oss / con e su cortèl agoz./Va a badè i tu pulsè/ ch'in se mogna i perdesul./
( Tirlindena pangrattato / mettimi a letto che sono ammalato./ Cuocimi un uovo con una polpetta / che faremo ballare Rosetta. /E Rosetta ballerà / suo marito canterà, / canterà piano piano / chè non lo senta il barbagianni. / Il barbagianni e dietro l'uscio / con il suo coltello aguzzo./ Va a badare i tuoi pulcini/ chè non si mangino / il prezzemolo.
C.C.
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IL MULINO ELETTRICO DI AMLETO (1978)
Una volta a Fognano c'erano cose che adesso non esistono più e se ne è dimenticata l'esistenza. Ad esempio, nella casa dove abito io, in via Foro Boario 25,vi era un mulino: il primo mulino elettrico della zona. Fino ad allora i mulini venivano costruiti lungo l'argine del fiume, per poter sfruttare l'acqua come fonte di energia.
L'edificio fu costruito nel 1928, di fronte al piazzale alberato di Foro Boario dove si svolgevano le fiere di merci e bestiame. Il proprietario del mulino era il mio nonno Amleto Casadio che lo comprò nel 1930 dal costruttore. Siccome dove abitava prima, nel comune di Bertinoro, faceva il mugnaio, decise di svolgere quella attività anche a Fognano. Il fabbricato è di due piani, il mulino era al piano terra con due macine per il grano e una terza per il granturco. Un motore elettrico azionava le macine. Successivamente questo motore fu sostituito da un altro a scoppio diesel, perché più economico.
Nel 1939 il nonno si ammalò e fu costretto a chiudere il mulino ed a vendere il macchinario, anche perché i suoi figli a quel tempo erano troppo piccoli per proseguire loro.
I locali furono adibiti a magazzino, finché il mio babbo nel 1963, non li sistemò e li trasformò nell'appartamento nel quale io abito con la famiglia..
(Pier Francesca Casadio-anni 14)
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Filastrocca che mi recitava la mamma: Cavallino arrì arrò / prendi la biada che ti do, / prendi la sella che ti metto / per andare a San Francesco. / San Francesco è sulla via / che conduce alla Badia.
C.C.
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IL MULINO AD ACQUA di CHICHE' (1978)
Il mulino di Fognano, ora in disuso, fino a poco tempo fa era il centro dei traffici del paese e delle campagne. In continuazione vi giungevano carri di contadini che portavano sacchi di grano e granoturco ed altri se ne partivano con farina e crusca. Si potevano vedere sotto l'ampio voltone che immetteva alle macine, mucchi di sacchi ordinatamente sistemati contro il muro e una grande "bascola" che serviva per pesarli.
Sul retro, verso il fiume, in un piano sottostante il mulino, c'era la ruota a grandi pale di legno che impartiva la spinta alle macine mossa dall'acqua del canale che partiva dalla chiusa che si vede dalla terrazza del Caffé di Stifilê. Spesso i mugnai erano costretti a scendere per ripulire o eventualmente aggiustare o sostituire gli elementi che il getto continuo dell'acqua e l'usura consumavano rapidamente.
All'interno, in un ambiente in penombra, dove si muovevano in continuazione cinghie e pulegge che impartivano i movimenti alle pesanti macine, fra l'odore di farina che usciva dai "metrezz" e il rumore degli ingranaggi, i mugnai lavoravano giorno e notte.
Durante la notte, il suono di una campanella collegata alla "tramozza" (recipiente per il grano) svegliava, quando era vuota, i garzoni che dormivano sdraiati sui sacchi e li faceva correre a riempirla di nuovo con pale e bigonci. L'indomani i contadini sarebbero ritornati coi buoi a ritirare i sacchi di farina e avrebbero pagato come il solito, secondo un'abituale procedura, con una "scopleda" di frumento per ogni sacco.
E così si alternavano Nino, Armando, Jorio, Paride e il vecchio instancabile Chichê.
Parte dell'economia del paese si reggeva sul funzionamento del mulino che dava alla campagna la possibilità di smerciare i suoi prodotti e ai paesani di pocurarsi il pane per la propria mensa.
( Emanuela PIancastelli )
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Un'altra filastrocca, strampalata e trucida, che la mamma recitava per divertirmi, era la seguente: Trotta trotta cavallino / mena l'asino al mulino. / Il mulino è rovinato / il mugnaio s'è impiccato. / S'è impiccato alla catena, / la sua moglie fa da cena. / Fa da cena al suo bambino / che si chiama / Nicolino./ Nicolino è andato in Francia/ con la spada e con la lancia...
Non ricordo più le sue gesta , ma Nicolino con quelle armi procurò certamente a qualcuno una triste fine...
C.C.
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Il pollivendolo ( maggio1977)
Quando i poderi erano abitati fin nei luoghi più lontani dei monti, le donne dei contadini si dedicavano all'allevamento di polli, conigli, tacchini, faraone, anatre per riempire i vuoti lasciati dal magro raccolto. Il mio nonno, sebbene fosse detto Ugo "dl'ostereia, faceva in realtà il pollivendolo. Diceva spesso. "Certi contadini sono così poveri che vendono un pollo per potersi comprare una saracca o il sale". L'alba lo trovava già sui monti col suo mezzo toscano fra le labbra. Andava a Monte Mauro, a Cavina, a Purocielo e oltre. Faceva il contratto coi contadini e comprava ciò che avevano da vendere. Se erano tacchini, per condurre a casa il branco, tagliava due lunghe canne alle quali lasciava le foglie della cima e, tenendole una nella destra e una nella sinistra, li guidava giù per monti e sentieri. Quando il sentiero era fiancheggiato da una siepe, gli accadeva spesso che qualche tacchino passasse di là e prendesse la via sbagliata. Allora era un'impresa piuttosto difficile ricondurlo al branco, perché il nonno doveva tener d'occhio i fuggitivi e nello stesso tempo occuparsi del branco. Giunto in paese, li metteva nel cortile dietro casa e la mattina seguente li chiudeva in basse gabbie, infilandoveli da uno sportello superiore. Poi con un carretto a mano li trasportava alla stazione dove venivano caricati sul treno per Firenze.
I conigli, le faraone, le anatre non potendole condurre a piedi, il nonno le portava sulle spalle legate a due a due per le zampe. Le uova, invece, le riceveva a casa dai contadini che gliele portavano immerse tra la pula o la paglia perché non si rompessero.
Per me è come se ascoltassi una favola e rimpiango di non aver potuto vedere il mio nonno Ugo scendere il monte col suo branco di tacchini schiamazzanti.
(Martina Ballieu anni 13)
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Mio cugino era un bambino gracile che i genitori mandavano d'estate da noi, con la speranza che l'aria di collina gli facesse mettere un po' di carne sulle sue ossa da pinocchietto. Era naturalmente anche molto ingenuo e quel burlone di mio padre, mettendogli in mano uno straccetto, una volta lo persuase che occorreva lucidare il becco dei tacchini che erano sul retro della casa. Non si fece pregare: entrato nel recinto, si mise a cavalcioni del primo tacchino e gli strofinò il becco per bene, poi passò al secondo e così via. Il suo lavoro, che lui trovò divertente, gli procurò un bel premio.
C.C.
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Don Battista Cantagalli
Era l'Arciprete della nostra parrocchia. Ricordo di averlo conosciuto ad uno di quegli esamini di catechismo che chiamava " dispute." Ci faceva disporre su due file ai lati dell'altare di S. Antonio. Egli stava in mezzo con la sua bacchetta che gli serviva per indicare, per richiamare e qualche volta anche per colpire. Indicando ora l'uno ora l'altro di noi, faceva le domande e noi dovevamo rispondere il più prontamente possibile altrimenti la bacchetta passava ad indicare un altro e noi eravamo "caduti". Siccome aveva l'udito piuttosto debole, i più furbi riuscivano sempre a farfugliare una risposta più o meno approssimativa. Io non avevo il coraggio di tentare l'imbroglio e mi rassegnavo a vedere la bacchetta volgersi da altra parte. Ricordo il suo amore per i lavori che continuamente abbellivano, arricchivano, consolidavano la nostra Chiesa. Allora il bollettino parrocchiale riportava spesso lunghi elenchi di offerte ricevute e di contributi richiesti; ma in parecchie occasioni si faceva voce calda, commovente e viva nell'ospitare lettere di Fognanesi lontani, emigranti, combattenti, prigionieri seguite dalle sue risposte. Ricordo le belle feste della parrocchia quando la facciata della chiesa fioriva di lampadine e le ricche, affollatissime processioni che si snodavano per il paese con lui in cotta, senza la bacchetta ( ma era come se l'avesse) che ne sorvegliava il buon andamento rifilando occhiate eloquenti e osservazioni. Tutto questo mi ricorda un Fognano amante delle processioni, delle predicazioni, della vita parrocchiale. Mancava allora il traffico che c'è oggi, mancavano le distrazioni, i diversi interessi...oppure mancava quell'indifferenza che piano piano raffredda i cuori, complica le cose, crea e ingigantisce i problemi. Manca il gusto di ritrovarsi per il piacere di stare insieme, manca quella fraterna cordialità che ci univa e ci fa di giorno in giorno più polemici, diffidenti e soli.
(G.M.)
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Per me le "dispute" erano le benvenute perché, chi vinceva rispondendo bene ad ogni domanda, riceveva in regalo un biglietto per andare al cinema parrocchiale. Io il catechismo lo studiavo e lo conoscevo bene, perciò mi capitava di vincerlo. Il biglietto era molto ambìto, costituiva il pretesto per spingere mio padre a mandarmi al cinema, naturalmente con la mamma e la sorella che altrimenti non avrebbero avuto il permesso.
C.C.
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Dal Testamento dell' Arciprete don Cantagalli.
(Nato a Fognano nel'agosto del1887; ordinato sacerdote nel'agosto del 1912; nominato arciprete di Fognano nel dicembre del 1918 e qui morto nel novembre del 1961)
"Chiedo perdono e scusa ai miei parrocchiani, che ho sempre amato, pregandoli di ricordarsi di me nelle loro preghiere, di vivere da buoni cristiani, difendere e praticare la nostra Religione, amare la nostra Chiesa, con la speranza di ritrovarci tutti uniti in seno a Dio nella Patria dei Beati"
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Quanti anni ha Fognano?
Il Paese o Castello di Fugnano -così si scriveva fino al 1800- ha origine assai antica, certo molto più antica di Brisighella. Giulio Cesare Tonduzzi, nella sua "Storia di Faenza", scrive che, "salendo da Faenza verso l'Appennino, sul fiume stesso ( il Lamone) è Fognano, luogo antico, che si trova nominato in scrittura autentica che lo annovera fino all'anno 920 tra i beni donati a quel tempo dal vescovo ai canonici di Faenza: cioè la Chiesa di San Pietro, detta di Fugnano". Di quella chiesa, forse la prima e la più antica, non si ha notizia e neppure si conosce la sua precisa ubicazione. Tuttavia si può pensare che sorgesse probabilmente nelle vicinanze o sul luogo stesso dell'attuale chiesa.
Dopo il Mille, Fognano divenne un castello del quale, nel 1292, si impadronì Maghinardo Pagani. Nel 1650, il Vescovo di Faenza, Cardinale Carlo Rossetti, in considerazione del notevole sviluppo economico che il paese di Fognano aveva assunto, concesse alla locale chiesa parrocchiale il titolo di arcipretale. Durante la dominazione di Napoleone I, con decreto imperiale del 1805, Fognano fu costituito Comune di Terza Classe e gli furono unite varie frazioni limitrofe. Mentre gli altri Comuni di Terza Classe compresi nel distretto di Brisighella furono aboliti negli anni 1810-1811, Fognano conservò la sua giurisdizione fino al 1816, come risulta da vari documenti contenuti nell'Archivio Comunale di Brisighella e nella Biblioteca Comunale di Faenza. La Chiesa Parrocchiale dedicata a S. Pietro risale al 1464.o nel 1822.
Nell'anno 1464 il popolo fognanese inaugurava una nuova Chiesa parrocchiale e il ricordo di questo evento è conservato in una preziosa pietra del tempo fatta murare dall'Arciprete don Giacomo Ciani sopra la porta della sacrestia, verso l'interno, dove tuttora si vede l'iscrizione latina che può essere tradotta così :
"1464 a dì del mese di giugno, il Popolo di Fognano aprì questa Chiesa che il Rettore ( della chiesa stessa) Don Stagio dei Costoli di Castebolognese innalzò, avendo per capomastro Martino muratore della Valle di Lugano" . La località denominata Valle di Lugano pare si debba interpretare come quella del lago omonimo della Svizzera Italiana, da dove a quel tempo scendevano fra noi i maestri dell'arte muraria.
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L' interno della chiesa era molto diverso da come è ora
In un inventario, redatto per la Curia vescovile di Faenza dall'Arciprete Don Domenico Benini morto nel 1800, così viene descritta questa chiesa: "La Chiesa di San Pietro di Fognano è fabbricata nella vicinanza della via pubblica che conduce da Faenza a Marradi, due miglia circa sopra Brisighella. La chiesa ha due navate, l'una grande senza volta, l'altra più piccola con una sola volta. Ha il campanile con due campane di mole sufficiente. Entro la Chiesa vi è il coro a volta coi suoi sedili di olmo e cattedra di noce. Vi è la sacristia e vi sono otto altari: primo l' Altare Maggiore che sta posto in capo alla navata grande col suo baldacchino sopra. A lato di questo, a mano destra, vi sono quattro altri altari, cioè quello di S. Antonio da Padova, di S. Pietro in Vincoli, della Assunzione di Maria SS. e di S. Rocco. E questi sono sotto la navata minore. A mano sinistra poi vi sono tre altari, cioè della SS. Vergine del Fuoco, del SS. Crocifisso, di S. Orsola. Infine, in una cappella presso la porta, vi è il Fonte Battesimale con suo cancello di legno a chiave e, sopra, il suo baldacchino".
In questa Chiesa, come si rileva dal libro dei Battezzati fino all'anno 1602, sorse il Fonte battesimale che prima era riservato alla Chiesa matrice, l'antichissima Pieve in Ottavo. Il primo parroco, insignito del titolo di Arciprete per l'importanza del luogo, fu il Rettore Don Antonio Fagnolo, al quale il suddetto titolo fu conferito nell'anno 1650, e da lui passò poi in seguito a tutti i suoi successori.
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NOTIZIE STORICHE SU FOGNANO
Fognano, contrariamente ai centri vicini, ebbe un solo castello che fu distrutto da Maghinardo Pagani di Susinana nel 1292 e mai ricostruito
Nella descrizione del Card.Anglico nel 1371,Fognano è indicato insieme con Quarneto e vi vengono indicati"77" fuochi (famiglie). Facendo la solita moltiplicazione per cinque si raggiungono nelle due terre385 abitanti, ma l'indicazione è molto aprossimativa. Tuttavia la popolazione aumentò tanto ch,e nella prima metà del secolo successivo, si sentì la necessità di costruire un ospedale-ospizio per i pellegrini. Nel 1850raggiunse i 1288 abitanti in 234 nuclei familiari.
A Fgnano nacque Agostino Galamini, frate domenicano, che dopo una brillantissima carriera ( (Inquisitore, Vescovo di Polignano di Bari, Generale dell'Ordine), fu creato cardinale da Papa Paolo V nel 1611, la vita dell'importante centro, sem l separazione da Brisighella sembra correre su due piani paralleli per due scopi : ottenere la separazione da Brisighella e il riconoscimento della prorpria autonomia in campo religioso.
Per quest'ultimo scopo si adoperò per liberarsi dalla soggezione alla Pieve in Ottavo, Chiesa Matrice*, ottenendo il fonte battesimale nel 1573 ( il registro dei battesimi comincia però dal 1602) e la completa economia neòl 1831. Sul piano politico-amministrativo invece la contesa con Brisighella** ha avuto finora un esito meno fortunato. La prima avvisaglia risale al 1647 quando Fognano chiese il mercato al venerdì separato da quello di Brisighella ma non gli fu concesso.
Fu Comune di terza classe nel periodo napoleonico ( dal 1804 al 1816 ) Il mercato venne concesso solo nel 1862. Nell'intermezzo fra i due periodi potè vedere riconosciute due richieste: la scuola pubblica nel 1821 e il medico condotto (1826).
Nel 1827 ottenne la Delegazione per gli Atti civili. Per altre notizie si fa riferimento a quelle relative a tutto il teritorio comunale come l'epidemia di colera del 1855 che nella sola Fognano, in 50 giorni, mietè 1850. vittime.
* Aveva soggette le parrocchie di Ghiozzano, Fognano, Undecimo (Poggiale), Zerfognano,S.Stefano, S. Michele, Quarneto e Vspignano
**Il territorio del Comune di Brisighella di 13.000 tornature comprendeva : le parrocchie di Fognano, S. Eufemia, poggiale, Cavina,S. Martino in gattara, Fornazzano, Calamello o Gorgognano,
Pistrino e S. Cassiano.
Queste notizie sono ricavate particolarmente dal libro di C. Mazzotti " Fognano in Val di Lamone"edito nel 1969
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Il Dottor Giuliano Trerè, nostro medico di condotta, nei ricordi di sua moglie Ada
Dal mio studio sentivo il sordo brusio della sala di attesa dell'ambulatorio. Tacchi e scarponi che andavano e venivano. Quel giorno mio marito venne a pranzo molto tardi. Io che non potevo chiedere mai nulla di quanto concerneva il suo lavoro, e che imparavo sempre dagli altri i mali dei suoi pazienti, spesso andavo a raccontarglieli, perché magari li avevo imparati in paese, senza che lui facesse una piega o che rettificasse o completasse in qualche modo le mie eventuali, perfettamente inutili, informazioni. Quello che succedeva in ambulatorio era strettamente tabù. Nel tentativo di farlo parlare gli chiesi un giorno timidamente:
-C'è forse dell'influenza in giro?-
-Perché?- chiese
-Ho sentito tanta gente andare e venire nella sala di attesa...-
-Macchè influenza, il più ammalato ero io.-
Infatti andava al Sant'Orsola a fare delle applicazioni di cobalto, dopo la prima operazione alla parotide, e di ritorno apriva l'ambulatorio.
A notte fonda il telefono squilla. Non mi sono ancora svegliata del tutto che lo vedo già vestito e in partenza.
-Dove vai? Ma come fanno a chiamarti a quest'ora?-
-Se stanno male chi vuoi che chiamino, il fabbro? Ciao.-
E via nella notte. Io sedevo sul letto, pensavo a luoghi tenebrosi e remoti, a nebbie fitte o a ghiaccio insidioso, secondo le stagioni, e aspettavo. Mi confortava appena un libro che ogni tanto mi cadeva perché mi appisolavo per svegliarmi di soprassalto a guardare dalla sua parte per vedere se era tornato. Mi rimettevo a leggere e ad tratto udivo la saracinesca del garage. Era lui. Improvvisamente rilassata, piombavo giù addormentata di colpo. Non l'ho mai visto rientrare, nè sentito tornare a letto.
Innumerevoli gli interventi. Mai un lamento. Ha combattuto per la sua vita da dedicare a me, a suo figlio, alla sua gente. Ci ha risparmiato, per quanto poteva, ogni pensiero, ogni segno della sua sofferenza. Dopo ogni grave operazione, tornavamo a casa e quando ci apparivano le nostre amate colline ci pareva di vedere il paradiso. Avevamo vinto una battaglia. La guerra continuava, ma eravamo armati di ferrea speranza. Lunghe ore passate davanti alla vetrata delle sale operatorie. Sola, perché volevo esserlo, a combattere disperazioni illuminate dalla speranza.
(Ada Ciani)
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Ogni volta che si prospettava un altro serio intervento, mio cognato Giuliano veniva a casa mia e diceva:- Vado a fare una settimana bianca.- Naturalmente intendeva " tra le lenzuola di un ospedale", ma cercava di darci la notizia con leggerezza, sorridendo, perché non voleva che ci preoccupassimo per lui.
C.C.
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Dopo la morte di suo marito Giuliano Trerè, la moglie Ada fece pubblicare un libretto dove aveva raccolto testimonianze dei suoi pazienti, colleghi, amici, estimatori. Nella presentazione scriveva:" Le ho stralciate dalle centinaia fra lettere, telegrammi, biglietti, offerte di beneficenza. Avrei voluto rispondere a tutti. Avrei voluto scrivere per intero quello che ho letto e che rileggo commossa. Mi duole immensamente che non mi sia possibile farlo. Grazie infinite a tutti e ad ognuno. Con tutto il cuore".
Dal libretto " Ricordando il Dottor Giuliano "copio alcune testimonianze scelte a caso.
xxx Il dottor Trerè è stato il Nostro medico per quattro generazioni.Tantissimi sono i ricordi dolorosi e lieti. Nel 1962 il mio babbo si sentì male.Il dottore arrivò d'urgenza, ma non poté fare altro che constatarne la morte. Ancora dolore quando mia madre per ben tre volte stette male. Gioia, quando dopo giorni di ansia, mi diceva:-Vedrai che ce la farà.- Una cosa mi è rimasta nel cuore: fu quando dopo avermi visitata mi disse che ero incinta. Mi pareva incredibile, ma non sbagliò. Ricordo mia madre tra la vita e la morte, nel 1957,colpita da una grave forma di trombosi. Il dottor Giuliano con grande amore la curò a casa: era sempre lì, giorno e notte. A quei tempi gli ospedali non erano attrezzati come oggi. In un anno riuscì a rimetterla in piedi. Nel1964 altra trombosi ancora più grave e anche quella volta la strappò alla morte e per altri sette anni la mia mamma visse abbastanza bene. Ricordo un episodio di quando mio marito si fece un taglio in un braccio nel lavoro. Attraversammo la strada di corsa perché allora il dottore abitava ancora in via Emiliani. Mio marito alla vista del sangue stava per svenire. Il dottore lo fece stendere sul lettino e gli disse:-Sta' tranquillo, non è niente-. Poi,vero o falso, gli raccontò:-È capitato anche a me quando cominciai a fare il medico. Mi avevano chiamato nel Mercato perché uno si era fatto male e vedendo il sangue mi sentii male anch'io. Così invece di soccorrere lui, dovettero soccorrere me.- Questo ci diede coraggio e ci rimise di buonumore, e intanto il dottore aveva fatto il suo lavoro. Finché avrò vita il Nostro dottore rimarrà sempre nei miei pensieri e nel mio cuore.
(Assunta Benini)
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xxx Oggi è una giornata molto fredda ed è come un invito a starsene qui al caldo a pensare. Guardo la pioggia che cade e vedo il mio Dottore che, camminando in silenzio, veniva a confortarci per le nostre sofferenze. Non mi lamento anche se a volte è difficile...Penso al mio Dottore, alle sue parole, alla sua infinita grandezza e questo ci aiuterà nel tempo affinché un giorno lo ritroviamo e saremo tutti riuniti per sempre.
(Valeria e Ivo Cattani )
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xxx "Quanto le devo dottore?"
"Niente. Tieni anche questi e vai a comprare le medicine di corsa."
C'erano dei soldi sulla scrivania e me li mise fra le mani facendomi segno di andarmene.
"Presto. Avanti un altro"
( n.n.)
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La vcêna del scherp ( La vecchina delle scarpe) anni 36/46
Piccola, minuta, i capelli grigi raccolti in una crocchia, le gonne lunghe, gli occhi azzurri, abitava in una stanzetta sul retro della casa di via Emiliani 41. Fabbricava pianelle, sandali, scarpe, pantofole. Bastava portarle qualche pezzo di stoffa avanzata, un po' di fodera, un bacchetto della lunghezza del piede e la "vcena del scherp" ne ricavava comode calzature. Comprava grandi fogli di cartone rigido da Giustèna, nella bottega che era di fronte al campanile della Piazza*, e ne ritagliava le solette che rivestiva di fodera e puntava sotto la forma di legno con alcuni chiodini. Tagliava poi la tomaia nel tessuto e, dopo averla foderata, l'applicava alla forma tirandola bene e cucendola alla soletta, La suola e il tacco li ricavava da vecchi copertoni di bicicletta scartati dal vicino meccanico. Modesta, come il materiale usato, era la lista della spesa: 200 lire (nel 1948 )
Un vecchio orologio a pendolo di ceramica decorata a fiori, scandiva il tempo e ogni quarto d'ora si scatenava in un rumoroso concertino, accompagnato da uno sferragliare di catene, che riempiva la stanzetta dove lavorava quietamente la "vcena del scherp", la mia nonna Laura, che tanto vecchia non era. Morì nel 1949 a 69 anni.
C.C.
* dove poi c'è stato un barbiere e infine un fruttivendolo
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Una insolita preghiera
Patèr nostèr, na scherpa ed fèr, na scherpa ed lôna, l'è e patèr ch'o m'ha insignè la mi môma.
(Padre nostro, una scarpa di ferro, una scarpa di lana, è il Padre Nostro che mi ha insegnato la mia mamma.)
C. C.
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Una domanda per i Fognanesi (scritto nel 2015)
A Fognano ci sono una sequoia e un albero del pepe? Chi ha risposto che sono piante di altri climi, è nel giusto, ma chi ha risposto che qui non ci sono, ha sbagliato. Com' è noto la sequoia della California è l’albero più alto del mondo e può raggiungere i 115 metri di altezza. La sequoia di Luigi Ragazzini, nella sua vigna sul rio Ebola, per ora, ha raggiunto i 30 metri e la circonferenza del suo tronco si potrebbe equiparare all'abbraccio di due uomini. E ha "solo” 45 anni. Luigi è un appassionato coltivatore di piante di ogni specie e il suo tempo libero lo dedica a loro. Possiede un formidabile pollice verde e non mi stupirei se perfino le assi di una staccionata, piantata da lui, mettessero radici e foglie... Nel suo pezzo di terra svettano alte sequoie, prosperano 2 centinaia di palme e 30 enormi banani ( un metro di circonferenza!) dai quali pendono grandi caschi di banane che, ovviamente, non andranno a maturazione. L'albero del pepe, che ora mostra grappolini di granelli verdi, si trova in un vaso dietro casa sua, a Pontenono, insieme a piante di limoni e aranci stracarichi di grossi frutti. Rose, ibiscus gigante, gardenie, camelie, orchidee, cespugli di erba cedrina...crescono dovunque e si moltiplicano purché Luigi ne abbia infilato un bacchetto nel terreno. Gli piace avere piante di ogni tipo e ha un feeling particolare anche con gli animali selvatici del suo territorio. Una lepre gli fece compagnia per tre mesi, aspettandolo, e stando seduta a poca distanza,mentre lui lavorava e le parlava, rifugiandosi poi nel suo covo sotto la grande quercia da sughero.
Ora si dedica meno a un altro particolare hobby a cui si appassionò 13.anni fa: incidere su lastre di pietra arenaria del Lamone graziose madonnine, natività, scene di caccia e altri soggetti. I suoi strumenti sono tre piccoli punteruoli consumati dall'uso. Cominciò ben 40 anni fa con quadretti pirografati su legno, cioè usando la tecnica della punta arroventata. " Ora non potrei più, dice con un sospiro, perché la mano mi trema un po' “. Nel suo laboratorio, esposte in bell’ordine su appositi scaffali, e sulle pareti della sua casa fanno bella mostra di sé innumerevoli sue opere. Dice che non sa resistere alla tentazione di raccogliere un sasso e di incidervi il soggetto che la sua mente ci vede raffigurato. Allo stesso modo è attento alla forma dei rami, delle radici e ne ricava bastoni da passeggio con l'impugnatura ricurva. Ne ha uno di pero, uno di ginepro, uno di ciliegio, uno di prugno e uno di oppio.
Ogni giorno da Pontenono raggiunge in macchina il suo luogo speciale e si occupa delle sue piante, ma per non più di due ore perché questo è il tempo che Maria, sua moglie, gli concede. Legato alla terra, alle piante, ai suoi hobby, Luigi non ha nemmeno il cellulare e in Maria ogni volta si ripete l'apprensione per quel marito, solo, nel silenzio rotto unicamente dal frusciare del vento tra i grandi noci e le gigantesche canne di bambù lungo la sponda del rio Ebola.
C.C.
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Pietro Tedioli detto Marèla (dal blog di sua figlia Daniela "unpiedeperterra")
La chiesa delle suore domenicane era stata edificata nel mezzo del Convento e poiché il mezzo del Convento coincideva con il mezzo del paese ecco che il negozio di babbo aveva l’ingresso proprio di fronte a quello della chiesa delle suore. Ogni mattina sollevava due metri di saracinesca dando tutta la luce possibile – non molta con la muraglia domenicana di fronte – al negozio, profondo due metri e mezzo, largo tre. La saracinesca scopriva una porta a vetri larga novanta centimetri e al fianco un metro di vetrina con quattro ripiani, sempre in vetro, sui quali erano adagiati preziosi d’oro – orecchini, ciondoli, catenine, anelli – e d’argento – cornici – poi macchine fotografiche e orologi dai cinturini in cuoio.
Entrando c’era giusto lo spazio per fare un altro passo: in avanti verso il bancone dove stendeva i rotoli in velluto che mantenevano ordinati e lucenti gli oggetti; a sinistra verso il banco da lavoro dove inseriva negli anelli le pietruzze che con gli urti schizzavano via e dove, soprattutto, aggiustava gli orologi. Metteva all’occhio destro un monocolo e usava le stesse pinze dei chirurghi per smontare e rimontare gli ingranaggi minuscoli.
Per tutta la vita, alla domanda che lavoro fa, che lavoro faceva, risponderà: faccio l’orologiaio, facevo l’orologiaio.
Era anche ‘il’ fotografo dato che, all’epoca in un paese di milleduecento abitanti, chi si intendeva di macchine fotografiche abbastanza da venderle se ne intendeva sufficientemente da usarle. Nei cinquant’anni di attività fotografò battesimi, Prime Comunioni, Cresime, matrimoni, processioni per la festa del Corpus Domini, sfilate di carri allegorici a Carnevale, recite nel teatro del convento a Natale
Durante la settimana in negozio, dietro il banco. La domenica fuori, dietro la macchina fotografica: tornava a casa a metà pomeriggio, contento e stanco, rosso in viso per i brindisi agli sposi.
Babbo non si è mai definito orefice perché non considerava un vero mestiere quello del commerciante, né fotografo che nel sentire comune risultava frivolo, mentre orologiaio gli era congeniale, gli piaceva essere un artigiano, conoscere un mestiere. E ne era geloso. Gli chiedevo babbo fammi vedere com’è che metti la rotellina nella cassa dell’orologio, com’è che cambi il cinturino, posso prendere la pinzetta, faccio io? Ma lui, niente, nemmeno a mio fratello ha mai insegnato. Era il suo segreto.
Quel mestiere non esiste più. Qualche anno fa (aveva già venduto il negozio), nella sala d’attesa del medico di base del paese, si accorse che gli orologi non usavano. Qualcuno chiese: “Che ore sono?”, tutti guardarono il telefonino e risposero: “Le 9 e 59”. Babbo ebbe la conferma che non si stavano più vendendo orologi e che conoscere come ripararli non serviva più, ma invece di sentirsi rimpiazzato e dunque invisibile
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28 marzo 2020
Babbo oggi compie ottantasette anni. Lo scrivo in lettere perché sono tanti e a leggerli così si intuiscono tutti. Le mie amiche notano che non dico ‘il mio babbo’, ma solo ‘babbo’. È diventato per me il suo nome proprio, come ‘nonno’ lo è per i suoi nipoti. Dei suoi ottantasette anni ben cinquantaquattro li sta passando a essere babbo e altri ventisette a essere nonno. Come tutti ha una vita dietro e, io prego, anche davanti. Cinquant’anni di matrimonio con mamma, che adesso è in Cielo, nello stesso Cielo aperto ieri dal Papa: non lasciarci soli nella tempesta Signore. Il compleanno lo festeggia con il personale del reparto dov’è ricoverato a Forlì giacché la porta d’ingresso è sbarrata, non si entra e non si esce.
Immaginavo per il suo compleanno di regalargli un pigiama nuovo, preparargli il suo budino preferito, mettergli il dopobarba dopo averlo rasato ben bene. Invece ieri sera ho aperto la scatola degli stampini per la pasta frolla e ho intagliato e poi cotto quattro teglie di biscotti a forma di angeli e cuori. La mia ricetta della pasta frolla prevede solo i tuorli e con gli albumi ho montato le meringhe. Ho preparato per chi si sta prendendo cura di lui, babbo lo apprezzerebbe.
Stamattina ho impacchettato tutto, come dicevo la porta del reparto è chiusa, ho passato i dolci dal balcone all’infermiera bardata come gli astronauti, come facciamo già da settimane con la biancheria. Con un pennarello nero dalla punta grossa gli ho scritto in grande:
PIETRO
TI VOGLIAMO BENE SEI IL NOSTRO BABBO E NONNO
OGGI COMPI 87 ANNI
AUGURI !
FUORI C’È L’INFLUENZA E NON POSSIAMO VEDERCI
MA LÌ DOVE SEI TI VOGLIONO TUTTI BENE
CI ABBRACCEREMO ANCORA QUANDO TUTTO SARÀ PASSATO
RESISTI !
E non è che così il personale del reparto gli sta più vicino: no, no, per carità, niente baci come leggevo sui bavaglini dei neonati. Ho preparato per il desiderio di festeggiare che babbo c’è, e in qualche modo una strada l’ho pur trovata, e così possiamo trovarla tutti. Queste vicende, babbo invecchiato, la pandemia, mi addestrano, sono per me parte di un lungo apprendistato all’amore gratuito, cosa che mi riesce difficilissima. Ad amare, cioè, senza calcolo. Vale per babbo, per gli infermieri e, vogliamo andare avanti? per i miei figli e figlie, gli amici, i colleghi. Mi auguro di non permettere a questo tempo di passare invano. A te, babbo, ottantasette anni non sono passati invano, non è vana adesso la tua vita: grazie te lo dirò quando ci abbracceremo se Dio vuole.
(Daniela Tedioli)
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Purtroppo Pietro non vinse la sua lotta contro il virus e dovette arrendersi. Andò a portare altrove il suo umorismo e il suo sorriso. Un giorno mi raccontò un aneddoto riguardante un cacciatore fognanese conosciuto per... spararle grosse. Questa era stata una delle sue avventure di caccia: " Ero in giro col mio fucile quando vedo un branco di uccelli che non finiva mai. Si posarono tutti su un albero. Se sparavo a uno, sarebbero scappati tutti, allora sparai nel mucchio. Non immaginerai mai cosa successe: ai piedi dell'albero raccolsi un cesto di zampe!"
A mio marito piaceva scherzare e una mattina, quando Piietro passò lungo il Parco Montuschi per andare a bottega, vide che il Parco aveva cambiato nome. Sulla tabella infatti c'era scritto Parco Marèla. Mio marito aveva coperto 'Montuschi' con una striscia di cartone.
C.C.
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La levatrice nello sfollamento
Durante l'ultima guerra io e la mia famiglia eravamo sfollati alla Valle di Ghiozzano con tante altre persone. Sotto la grande quercia, che è centenaria e protetta e i cui rami fanno ombra a tutto il casolare, sedevamo spesso a guardare nella vallata. Ad un tratto vedemmo venire un uomo ansimante che forzava il passo. Disse che cercava l'ostetrica. Veniva da Paderna ed era arrivato alla Valle camminando sempre lungo il fiume Lamone da San Francesco in giù. Era senza documenti. Spiegò piangendo che la moglie era in gravidanza avanzata col bambino che stava per nascere. Disse che aveva altri tre figli piccoli e non aveva un soldo. La strada era piena di insidie, però l'uomo mi fece tanta compassione che decisi di accogliere la sua preghiera. Pensavo che alla Gregorina, la casetta che sta proprio in cima alla salita per Ghiozzano, avevo assistito al parto della moglie di un repubblichino di Marzeno che prestava servizio a Fognano. Quella volta, dopo che il bambino era nato, mi aveva detto che se avessi avuto bisogno di lui, mi avrebbe aiutato. Venni giù dalla Valle con la mia borsa e andai da lui. Gli raccontai della sfollata di Paderna chiedendogli se poteva accompagnarmi almeno fino alla strada della Valletta o a Ca' di Vaso di Sopra. Rifiutò, disse che aveva l'ordine di non uscire di casa.
Andai da sola perché lo sfollato che era venuto a chiamarmi, essendo sprovvisto di documenti, doveva rifare il cammino lungo il fiume.
Feci tutta la strada senza incontrare nessuno. Passai lungo il muro delle suore e mi pareva di avere le ali ai piedi. Arrivai al Casino.Mi pareva di essere sola al mondo. Salii per i campi di Ca' di Vaso di Sopra e percorsi la strada che passava tra le Bagnare. Ricordo che dietro i tronchi degli ulivi c'erano due uomini di Castellina e uno di essi mi chiese se sapevo le ultime notizie.
Mi affrettai più che potei verso Paderna e giunsi alla casa senza incidenti.. Con l'aiuto della contadina assitei la sfollata che partorì nella notte.
Al mattino dopo feci ritorno alla Valle. Ero contenta che tutto fosse andato bene, ma avevo un altro concetto dell'uomo che era venuto a cercarmi, ossia il padre del neonato. Nel salutarmi mi ripetè che non aveva soldi per ricompensare la mia opera però, se volevo, mi avrebbe regalato il bambino tanto loro ne avevano già tre. Non scherzava e non era neppure imbarazzato nel fare una simile proposta.
Ringraziai per l'offerta e me ne andai augurando al bambino appena nato tanta fortuna.
(Natalina Visani)
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Alla Gregorina abitava una coppia, Carôla e Cherubê, due persone semplici, simpatiche, non più giovani. Un lunedì Cherubê pensò di andare al rinomato mercato di Marradi. Si recò alla stazione e comprò un biglietto di andata e ritorno. A Marradi comprò una pecora, perciò decise di ritornare a casa a piedi con lei. Mentre si metteva in cammino, gli giunse dalla stazione di Marradi il fischio della locomotiva. L'ingenuo Cherubê, raccontò poi con un sorriso furbetto negli occhi -: Aveva voglia di fischiare il treno e di aspettarmi!-
C.C.
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La grande battaglia aerea del 25 aprile 1944
Una formazione alleata di fortezze volanti proveniente da sud-est venne intercettata da caccia tedeschi sulle colline appenniniche a sud di Forlì. L’attacco dei caccia tedeschi fu rapido e nel giro di pochi minuti due bombardieri precipitarono, uno vicino a Palazzuolo sul Senio, l'altro si schiantò sulle pendici del Monte di Visano, presso il podere Marche, vicino a Fognano. Dei dieci uomini dell’equipaggio, otto ebbero il tempo di lanciarsi col paracadute, mentre per due, colpiti dalle raffiche tedesche, non ci fu nulla da fare. I superstiti atterrarono ma furono catturati anche se in momenti diversi. Pare che uno di essi fosse salvato dai partigiani di Corbari. Gli americani persero sei bombardieri, i tedeschi quattro caccia , ma tra di loro ci fu solo un morto che cadde col suo aereo vicino a San Cristoforo.
Molti Fognanesi corsero alle Marche, luogo del disastro. Il bombardiere era esploso e i frammenti dell'aereo erano sparsi su tutto il fianco del monte. I poveri resti dei due morti, furono raccolti dal becchino Ceroni e da Melandri, padre del professor Giuseppe Melandri, portati al cimitero e sepolti..
C.C.
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Ada Ciani, un vero personaggio (Scritto circa 12 anni fa- 2008 per Voce Amica)
“Quando ci sposammo (nel 1923), avevamo 27 lire in due e la casa da nessuna parte”. Sono le precise parole che il babbo Ugo amava ripetere per suscitare lo stupore dell’ascoltatore. Ma c’era molto di vero. Quando Ada aveva solo 9 anni, si trasferirono da Lutirano a Fognano prendendo in affitto l’Osteria di Zabach, nel Prospetto. Per quella bambina lasciare gli adorati nonni materni, i compagni di gioco, il suo piccolo mondo fu uno choc così forte che le procurò frequenti mali di testa. Naturalmente il tempo è spesso un buon medico e Fognano cominciò a sembrarle meno enorme, le offrì nuove amicizie, nuove abitudini, una nuova scuola. Nell’osteria il vociare, il cantare, il bussare degli avventori giocando a briscola, non le impedivano di concentrarsi nello studio seduta su una delle lunghe panche lucide che stavano ai lati delle lunghe tavole. Si fece subito notare per il profitto e soprattutto per la facile vena letteraria e per il carattere aperto, simpatico e cordiale. Amava la gente del paese e aveva un saluto per tutti. A ogni suo rientro a casa, il babbo le chiedeva: “Quanti buongiorno hai dato oggi?”. Il suo affetto si sente anche nei ritratti vivi e precisi che ha fatto di vari compaesani, in particolare nel suo libro “La nostra gente” nel quale descrive anche I luoghi della Memoria, le Tradizioni Fognanesi, le Notizie Storiche. È un libro, illustrato da belle foto scattate da don Antonio Poletti, che potrebbe stare benissimo nell’archivio del paese perché ne è lo specchio, attraverso scorci di vita paesana, eventi, racconti , testimonianze raccolte dai personaggi descritti, mestieri perduti…
Nel 1948 Ada fu la prima nel Concorso Magistrale della nostra Provincia e scelse la sede scolastica di Lavezzola dove rimase dieci anni. I suoi scolari, ormai ultra sessantenni, organizzano ancora incontri con la loro maestra che non hanno mai dimenticato.
Col libro “Fiori di Banco” si può dire che aprì la strada a raccolte e pubblicazioni di tal genere. Ricorda quando andò a Milano a presentarlo all’Editore Bompiani e fu ricevuta da Umberto Eco che,mentre lo leggeva, non sapeva trattenere il riso. Fu invitata alla Televisione ospite prima di Pippo Baudo e poi di Gianni Minoli nelle loro trasmissioni per essere intervistata. Organizzò per 10 anni un Concorso di poesia per bambini di scuola elementare e media, intitolato a Elvio Cornacchia per tenere viva la memoria dell’artista e amico scomparso prematuramente. Organizzò mostre di pittura per artisti locali e non, incontri di letture e recite di poesie in dialetto. Con la sua vena umoristica, scrisse bozzetti, atti unici, commedie, farse per la gloriosa e indimenticabile Filodrammatica Femminile Fognanese, La FiFeFo Ha vissuto una vita piena, interessante, mai banale e ben spesa soprattutto insieme al marito, il dottore di Condotta Trerè Giuliano, molto stimato e tanto rimpianto dai suoi pazienti.
Ora vive tranquilla tra i suoi libri, nell’amore per l’adorato nipotino Edoardo che sta rallegrando i suoi tardi anni di nonna fortunata.
C.C.
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Alcune foto dei libri che ha pubblicato. Ha contribuito ad altri testi, alla rivista letteraria La Piê, con articoli e poesie, a libri per bambini nella collana Rondò ecc. Qui manca "Fiori di Banco", il libro più diffuso, perché la foto si trova nella Prima pagina del sito.
Miracolo a Fognano
Successe nel 1909 e fu considerato un vero e proprio miracolo. Durante la processione del Corpus Domini, una bimba, Domenica Montuschi,di tre anni, tra lo sbigottimento dei presenti, cadde dal ponte sul Rio Bagno da un'altezza di 20 metri. Rimase incolume.
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Non so se quello che accadde molti anni dopo a un Fognanese fu un miracolo o no. Mentre passava sul ponte tra due carabinieri, arrestato perché colpevole di aver rubato della biancheria stesa ad asciugare, improvvisamente raggiunse la spalliera del ponte e si buttò nel vuoto. I carabinieri, sorpresi e allibiti, non osavano affacciarsi temendo di vedere il raccapricciante risultato di quella caduta. Quando lo fecero,con grande sorpresa, scorsero l'uomo correre verso il fiume. Si pensò che la sua giacchetta, aprendosi, avesse rallentato la caduta, e da quella volta gli fu affibbiato il soprannome di Seltapont (Saltaponti).
Non andò così a un altro Fognanese che una sera disse alla moglie:" Vado a comprare il tabacco". Invece andò sul ponte e si gettò per suicidarsi. Lo chiamavano Minghì de stalatic.
Era chiamato "stallatico" lo stanzone a pianoterra del suo appartamento dove i pellegrini di passaggio potevano alloggiare le loro cavalcature. E pensare che quello stesso stanzone era stato l'entrata delle carrozze che portavano ragazze di buona famiglia nel CollegioEmiliani per essere istruite ed educate a diventare brave signore nel futuro.
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LA MADONNA DELLA GRAZIE
Pare che il culto della Madonna delle Grazie si sia esteso da Faenza a Fognano. L'adorazione di questa Madonna cominciò a Faenza dopo la liberazione dalla peste del 1412. Un documento rivela che a Fognano il culto risale con certezza al maggio 1551. La Madonna è un dipinto su tela della fine del XV secolo. Fu venerata prima nella Chiesa di Santa Caterina delle Monache ( non più esistente) finché, nel 1720, dopo essere stata dichiarata dal Vescovo Patrona del Popolo Fognanese, fu portata nella Chiesa del Suffragio che era stata costruita pochi anni prima. Ora si trova nella chiesa parrocchiale di San Pietro.
I Fognanesi veneravano la Madonna delle Grazie, insieme al crocifisso detto affettuosamente "e Moré" per il suo colore marrone.
Quando suonavano le campane qualche volta era il segnale che qualcuno aveva fatto scoprire la Madonna per ricevere una grazia urgente
Veniva alzato il piccolo telo che ne ricopriva l' immagine nel suo alloggio dorato sopra un altare.
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L'Arciprete Battista Cantagalli, dotato di notevoli capacità nell'arte della pittura e nella poesia, scrisse un canto liturgico espressamente rivolto a lei come protettrice di Fognano che si canta tuttora .
"Maria, Madre di Grazie, dolce candor di giglio, tu con il tuo bel figlio/ la vita sei, l'amor./ Un popolo ti prega e ti tributa onor./Un popolo ti prega e ti tributa onor.
Sei del paese fervido/ conteso al fiume e al monte/ inestinguibil fonte/ di celestial favor."
C.C.
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1728-1928 BICENTENARIO DELLA B. VERGINE DELLE GRAZIE
In occasione del bicentenario(1988) della Madonna delle Grazie l'arciprete don Cantagalli, ne fece fare una riproduzione in alluminio e ne offrì una copia in dono a tutte le famiglie del paese. La madonnina veniva inchiodata sull’uscio della cucina perché custodisse la famiglia riunita. Il titolo di Madonna delle Grazie fu dato alla Vergine non prima del 14° secolo. Del suo culto si parla a Faenza fin dal 1412 quando la città fu liberata dalla peste che aveva infierito su tutta la Romagna. Poi, da Faenza, la devozione alla Madonna delle Grazie si estese lungo tutto la vallata del Lamone fino a Fognano dove se ne ha notizia dal 1551.
In quella data vengono infatti registrate, nel libro più antico dell' archivio parrocchiale, ricevute e spese effettuate per la festa della Madonna il 10 maggio. Allora l'immagine tanto cara ai Fognanesi risulta custodita nella chiesa di S. Caterina delle monache domenicane dove aveva un altare proprio. Monsignor Cervioni, vescovo di Faenza, nel 1728 la proclamò patrona del popolo fognanese, così l'immagine fu solennemente trasportata nella Chiesa del Suffragio che era stata ultimata dieci anni prima, nel 1718. Fu in preparazione del secondo centenario della Madonna delle Grazie che, nel 1925, nacque Voce Amica. Era infatti il settembre del 1925 quando don Battista Cantagalli aprì la preparazione al centenario pubblicando un "bollettino" che avrebbe continuato la pubblicazione, adeguandosi, nella veste e nel contenuto, fino ad oggi. Le feste solenni del '28 si protrassero per 9 giorni durante i quali furono organizzati pellegrinaggi dalle parrocchie vicine e furono tenuti tre convegni diocesani. La festa grande fu celebrata la domenica 16 settembre.
Il Mazzotti ricorda che" la musica fu eseguita da una società polifonica di Bologna e furono invitate cinque bande"...; "purtroppo la festa grande, dice sempre il Mazzotti, “fu ostacolata da una pioggia torrenziale". I Fognanesi ricordano altre piogge che hanno fatto sospendere le processioni anche all'ultimo momento quando già la gente era stipata nella chiesa e i chierici si affacciavano dalla porta coi lampioni nella speranza che il cielo si muovesse a compassione. Forse cominciò allora il pittoresco modo di dire "sfurgoné e fog", detto che si riferiva alla processione di S. Marco, il 25 aprile. La processione arrivava fino al Prospetto e il sacerdote invocava la clemenza degli elementi. In quella stagione il tempo era spesso piovoso e malevolo e si cominciava a trepidare per la Festa della Madonna delle Grazie e dell'Ascensione. Quella di S. Marco, secondo i più, era la maniera più decisa di provocare il tempo. "Sfurgoné" intendeva essere una provocazione, un po' come battere sul ciocco sonnacchioso con l'attizzatoio del focolare per far sprigionare le scintille e poi la fiamma chiara.
Quando la processione dal Prospetto tornava verso la chiesa la fiducia nel bel tempo era rinata. Si sostava poi nel Suffragio per prelevare la Madonna delle Grazie che veniva portata festosamente in S. Pietro in attesa della sua festa. Nel pomeriggio, presso la Madonna, si procedeva alla benedizione dei bambini ed era allora che le mamme, coi loro piccoli, parati a festa, offrivano candele di grossezza e di importanza proporzionate alle loro possibilità o semplicemente alla loro generosità. Avevano cominciato una settimana prima a interessarsi alle candele.Le botteghe ne proponevano di varie misure. Teresiena, in Piazza dove ora c'è il negozio di Graziella (NOTA:quel negozio non esiste più da moltissimi anni), tirava cordicelle lungo il muro esterno e vi appendeva le candele per lo stoppino. Le mamme passando adocchiavano, ammiravano e facevano progetti. (...) Dopo S. Marco la Madonna veniva portata in processione per le Rogazioni tre giorni di seguito,il lunedì, il martedì e il mercoledì precedenti l'Ascensione. Il mercoledì la processione si fermava alla chiesa del Suffragio e di lì veniva prelevato "e Moré", il Cristo crocifisso, che andava a prender posto nella chiesa parrocchiale da dove sarebbe stato portato solennemente lungo il paese nella grande e rinomata processione dell'Ascensione. (...)
Da Voce Amica del maggio 1988.
AdaT.Ciani
Per la festa dell'Ascensione si metteva "e paz a mol, si metteva il pozzo a mollo. Questo detto significava che si festeggiava in grande.Venivano i parenti, si preparava un lauto pranzo, si facevano i "zucheré", biscotti casalinghi molto buoni su cui si versava un po' di alchermes, liquore dolce, rosato e si decoravano con pallini colorati. Si "rinnovava" il vestito nuovo, conservato proprio per quell'occasione. Il paese si riempiva di tante persone.Gli amici ritrovavano gli amici di un tempo . C'erano le bancarelle e ai bambini si comprava il fischietto di zucchero rosso o la pallina di stoffa con l'elastico. Al pomeriggio dalle finestre pendevano le coperte più belle che rallegravano la vista in preparazione del grande evento: la processione solenne. I sacerdoti riconoscibili credo siano don Cleto, cappellano, e don figlio di Lugheré e Bianca la postina. Davanti al baldacchino c'è il vescovo con molti altri preti. Durante la processione si abbassavano le saracinesche dei negozi, i bar chiudevano e gli uomini sostavano fuori per vederla passare. Nella foto del 1953 c'è solo uno scorcio della processione con due file di bambini, senz'altro preceduti dalle ragazze, dalle donne di Maria con lo stendardo. Dietro ai bambini la banda, il vescovo e tanti sacerdoti. Seguiva il baldacchino con E Moré portato a spalla e infine una folla mista di uomini e donne. Nella foto la processione spunta dalla curva del bar Lamone e inizia la salita verso il Parco della Rimembranza.
Il distributore di benzina.
Nei primi anni 50 Fognano fu dotato di un distributore, l'unico da Brisighella a Marradi. Era un distributore a manovella, perciò occorreva olio di gomito per rifornire gli acquirenti. Era dotato, nella parte superiore, di due contenitori cilindrici trasparenti : uno dove saliva la benzina, un litro alla volta; l'altro dove saliva la miscela per i motori. Quando arrivava un' auto per il rifornimento, si cercava di essere veloci nello spingere avanti e indietro la manovella laterale perché al cliente non sembrasse di aspettare troppo. Se i litri erano una decina, il braccio si indolenziva... Per la miscela, per mezzo di una rotella, si graduava l' olio e poi si aggiungeva la benzina. Evidentemente qualcuno rimandava il pagamento perché Ugo, proprietario anche della trattoria accanto, aveva messo in mostra un cartello con questa scritta: "La luna senza sole non risplende, la benzina senza soldi non si vende".
Che poeta!
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Una volta un cliente che abitava a Cavina venne a far miscela con il suo sidecar. Dopo poco ritornò a piedi e protestò con Ugo perché a 300 metri dal distributore il motore si era bloccato e non accennava a ripartire. Facendo un controllo sul distributore, Ugo si accorse che, insieme alla miscela, saliva anche acqua. Un disastro. Evidentemente nel grande serbatoio sotterraneo la pioggia aveva trovato il modo di entrare aggiungendosi alla benzina.
Quella volta fu Ugo a pagare, eccome!
C.C.
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La "nascita" del Parco Montuschi al posto del Foro Boario
Fognano non aveva un giardino pubblico. Forse non ne sentiva nemmeno la necessità visto che, nel piazzale alberato di Tigli, piccoli e grandi trovavano modo di divertirsi. Non c'erano le panchine, questo è vero, non c'era la vasca coi pesci, però i tigli erano belli. Ombrosi d'estate, ospitavano cicale in concerto e i loro fiori profumavano l'aria in primavera.
Credo fosse nei primi anni 50 che i tigli furono abbattuti e sostituiti da qualche abete, da cespugli e da lagestroemie (poi nel tempo da prugni rossi e acacie) in girotondo attorno alla vasca. Nella cartolina, il Parco-giardino pubblico sta nascendo. Non si vedono le quattro giovani piante che ora sono maestosi abeti dove nidificano alcune gazze.
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Le preghiere del Romagnolo
Il Romagnolo non vuole essere religioso, almeno davanti agli altri, ma, nel dubbio
che qualcosa di soprannaturale esista, mette le mani avanti e recita questa preghiera:
E mi Signor (s'ai si), ch'a si tant bon (sl'è evera),fim on piesé (s'a potì), tolim te paradis (s'o j è).
Signore mio (se ci siete), che siete tanto buono (se è vero),fatemi un piacere(se potete),
prendetemi in paradiso (se c'è).
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Il Romagnolo,per paura di essere cornuto, recita questa preghiera:
E mi Signor fasì ch'a num marida,/ e s'am marid/ fasì ch'an seia bech,/
e se a sarò bech/ fasì ch'an ne sepa.
Signore mio, fate che non mi sposi,/ e se mi sposo/ fate che non sia cornuto/
e se sarò cornuto/ fate che non lo sappia
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Quando correvano tempi "migliori", Fognano decise di festeggiare il carnevale con una sfilata di carri mascherati e di personaggi. Si divise in quattro rioni e si rimboccò le maniche scoprendo una fantasia, una voglia di collaborazione e di capacità meravigliose. Naturalmente a rimboccarsi le maniche non fu Fognano, ma tanti uomini e donne fognanesi che presero la cosa molto sul serio, insieme all'eclettico don Antonio Poletti, parroco del paese. L'entusiasmo era alle stelle, la partecipazione completa e costante.Ognuno diede il meglio di sè e il successo fu incredibile. Le sfilate in verità furono due in due anni diversi: 1974 e 1975. Il traffico, fermo in quei due giorni, permise ai carri di attraversare il paese tra due ali di folla.
C.C.
Lascio la parola a Gianraniero Samoré, uno dei tanti entusiasti.
Era una bellissima sfilata con 4 carri, uno per rione. C’era il Rione Giallo che era la parte diciamo bassa, di Fognano, cioè dal campo sportivo in giù verso Brisighella, quindi tutta la zona della nuova caserma. Poi c’era l’azzurro che andava dalle scuole media alla chiesa di San Pietro, poi il Rosso, dal parco della rimembranza finì al foro boario ( la via che costeggia da dietro il parco dove c’è la baracchina , poi c’era il Verde che era considerato i dintorni, Castellina compresa. Non si fecero solo i carri per la sfilata a anche tornei di pallavolo, di calcio, di pesca, e una giornata di gare atletiche e anche di altro tipo,
ma anche tornei di pallavolo, di calcio, di pesca, e una giornata di gare atletiche e a
come il tiro alla fune e la corsa sui trampoli.
Purtroppo finì male per via di una scazzottata al campo sportivo tra le varie fazioni,ma sarebbe finita in ogni modo perché l’impegno per costruire i carri era immane e durava mesi, e in tanti si prodigarono la prima volta poi già dalla seconda le forze diminuirono e diventò troppo impegnativo.Ma soprattutto finì l'austerity ( cioè la domenica senza auto), e chiudere la statale per la sfilata diventó impossibile. Oggi restano nei ricordi di chi partecipò in un modo o nell’altro come una delle più belle manifestazioni popolari fatte a Fognano.
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ll CARNEVALE DEL 1975 raccontato e illustrato dai bambini di seconda elementare di quell'anno
Gianluca Samoré- Il carro del Rione Blu rappresentava la favola di Alice nel Paese delle meraviglie. Sopra al carro c'era la casetta di Alice e anche lei. Dentro la casa c'erano due conigli, un gatto e un topo. La casa era sopra un grande libro aperto.
Katia Benini-Il carro che mi è piaciuto di più è stato quello del Rione Rosso perché era una grande nave con le vele variopinte. La barca aveva dei bellissimi colori che erano. rosso, giallo, verde e blu. Sopra la nave c'erano tanti bambini, tutti vestiti da pirati. Seguivano alcuni turchi prigionieri che tiravano l' Isola del Tesoro sopra la quale c'erano Robinson Crusoè, Venerdì e il suo cane
Silverio Salsano-Il nostro Rione quest'anno ha presentato la nave dei pirati. Un giorno sono andato a vedere come facevano la nave. C'erano quattro ruote sulle quali costruivano la nave. Hanno lavorato tanto per finirla. Il colore della nave era verde con una striscia rossa, le vele erano arancione, la fiancata gialla. A prua c'erano due ancore, a poppa due lanterne. E' stata battezzata col nome : Il Terrore dei Rioni.
Silvia Laghi-Io appartengo al Rione Rosso. Quest'anno il mio carro rappresentava un galeone carico di bimbi vestiti da corsari e pirati. I cannoni lanciavano borotalco e i pirati tiravano coriandoli e stelle filanti. C'erano un barile di rhum e una cassa piena di caramelle, collane monete di cioccolata che rappresentavano il tesoro.
Marco Costa- Il carro del Rione Giallo aveva la forma di uno scarpone rovesciato. Era molto grande ed era sorretto da due alberi. Serviva da casa a tutti gli abitanti del bosco. C'erano tante finestrine con le tendine. Sopra al carro c' era Pippo che pescava con la canna dentro una botte piena di coriandoli,
Marco Degli Innocenti- Io avevo il vestito di Morgan, il pirata. Avevo una camicetta bianca con il pizzo, una giacchetta rossa come i pantaloni, una pistola, una spada e un berretto rosso. Ero proprio forte e robusto come il ferro quel giorno. Stavo di vedetta sulla coffa che era molto in alto. A me piaceva stare lassù.
Tiziana Montanari- Rione Verde.Io ero vestita da cinesina. Indossavo un chimono rosso con mazzi di fiori. Avevo il concio con gli spilloni: due erano rossi, due celesti e altri due arancione. Nel mio ventaglio da una parte era scritto Fognano e dall'altra Verdi in caratteri che somigliavano a quelli cinesi.
Marco Costa- Il mio testone di cartapesta aveva le orecchie molto delicate perché si rompevano facilmente. Avevo due calze: una nera e l'altra azzurra. Le mie scarpe si screpolavano tutt'e due. Il nastro che avevo attaccato al collo era lungo. Avevo la testa nera e la bocca rossa. Ero Gilberto.
Gianluca Samorè- Ero vestito da farfalla con due grandi ali. La tutina era color oro, le antenne nere con due perle sulla cima. C'era un fiore a destra e uno a sinistra. Dovevo camminare sulla riga bianca della strada. La tuta mi pizzicava. Camminavo bene, mi sentivo vestito da astronauta perchè la tuta era uguale a quella degli astronauti.Mi sentivo contento.
Laura Tramonti-Ero vestita da Qui e la mia amica era vestita da Qua.Mi sono divertita tanto perché avevo sulla testa un testone di cartapesta.Ogni tanto me lo levavo perché mi faceva caldo. Tiravo i coriandoli sulla testa della gente. Tanti mi facevano le fotografie. Mi piaceva il mio vestito, mi stava bene.
Katia Benini- Ero vestita da piratessa. Il mio vestito era bello perché la camicetta lilla aveva le maniche larghe, invece la sottana era blu con una riga gialla e aveva le punte. Sotto la sottana avevo la sottogonna. Tra le punte si vedeva del pizzo. Sono stata contenta al carnevale.
Silverio Salsano- Facevo il pirata ed ero al cannone. Il mio vestito mi piaceva. Avevo il cappello con la morte in cima, avevo anche la spada e la pistola. Sulla nave facevo tanto chiasso. Mi sentivo un vero pirata. Avevo la camicia bianca, i pantaloni gialli, il giacchetto verde con la cinghia e la bandoliera . Avevo anche gli stivali con gli smerli.
Angela Cattani- Io ho fatto il nano. Avevo la giacca, i calzoni , la barba e il cappuccio. Dopo è arrivata Biancaneve.E' salita sul cavallo e siamo andati al campo sportivo. Mi è piaciuto tanto ed è stato molto bello.
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ANTICHE USANZE CARNEVALESCHE FOGNANESI
Nel 1987 un'anziana signora, interrogata sui suoi ricordi legati al carnevale, raccontava che il carnevale si conosceva appena e solo negli ultimi giorni Per mascherarsi, bastava un vecchio vestito della nonna, un cannello di carbone per disegnare sopracciglia, baffi, barba, nei, oppure si otteneva lo stesso scopo usando un sughero bruciacchiato sulla fiamma della candela. Una manciata di farina dava pallore al viso o imbiancava i capelli. Un pezzetto di carta velina rossa inumidita trasferiva il colore alle guance o alle labbra Erano gli anni prima della grande guerra. Sulla strada ghiaiata, passava un carretto tirato da un asino con uomini vocianti che allungavano un bastone con un filo al quale era attaccata una saracca, o tiravano carrube e fichi secchi. Lei, bambina, correva dietro al carretto sperando di acchiappare una carruba o una castagna e, se portava a casa una saracca, era una gioia. La sera del martedì grasso, alle dieci suonava la campana detta "la lova". Si mangiavano le ultime castagnole , si pulivano le padelle perché a mezzaotte cominciava la Quaresima e bisognava cancellare i segni del carnevale.
Negli anni 20 il segno del Carnevale era dato da gruppi di uomini allegri che cantavano nelle osterie o lungo il paese Usavano vasi da notte di smalto per mangiarci i maccheroni col sugo. Le donne generalmente non si mascheravano altrimenti sarebbero state additate e derise.Si accontentavano di affacciarsi alle finestre e, se potevano, lanciavano qualche castagna o fico secco.
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Un antico detto che sembra un esortazione: "Quand ch'o sona l'emmareia, chi è per la stré o scapa veia".
( Quando suona l'Ave Maria, chi è per strada, scappa via). L'Ave Maria suona verso sera e probabilmente era consigliabile raggiungere la propria casa.
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Da una testimonianza di Davide Gondoni senior invitato nella mia classe di IV elementare-1968
I BRACCIANTI (tra le due guerre mondiali)
Nel passato la maggior parte dei Fognanesi facevano i braccianti. Fare il bracciante era un lavoro stagionale e consisteva nell'aiutare i contadini nei momenti di maggior lavoro: la mietitura, la trebbiatura, la raccolta delf fieno, la vendemmia. La disoccupazione era spaventosa. Nei mesi in cui non c'era lavoro,alcuni salivano sui monti, raccoglievano legna nei boschi, ne facevano un fascio e lo portavano sulle spalle fino al paese. Il sabato sera e la domenica mattina portavano in piazza il loro fascio (che chiamavano "la volpe", ma non so perché) e lo vendevano alle famiglie che avevano bisogno.di legna da ardere. Se c'erano strade da ghaiare lavoravano per il comune portando cesti pieni di ciottoli sulla schiena. Salivano dal fiume e li scaricavano in mucchi lungo la strada da ghiaiare. Sul mucchio si sedeva un uomo, detto " e macarè" (lo schiacciatore), e col martello spaccava i ciottoli riducendoli in pezzi piccoli: la ghiaia. Molti avevano un pezzo di terra in collina ("e ronch" o "la sèlda") oppure una vigna. Lavoravano la terra in pendenza con la zappa, e coltivavano piccole quntità di grano, granturco, patate, fagioli per la famiglia. Quelli che avevano la vigna facevano il vino e anche l'olio perché c'era sempre qualche ulivo tra le viti.
I braccianti erano pagati poco e lavoravano come bestie dalla mattina alla sera. Per questo tanti erano costretti ad emigrare all'estero per trovare lavoro. Andavano in Germania, in Austria, in Svizzera, in Francia, nelle miniere del Belgio.
Quando l'Italia conquistò l'Eritrea in Africa, da Fognano partirono in vari turni 150 braccianti. Una volta la nave che li portava, la Cesare Battisti, arrivata nel porto di Massaua, saltò in aria per un atto di sabotaggio. Ci furono 29 morti e tanti feriti. Morirono anche due Fognanesi. C'era poi anche l'emigrazione interna. Alcuni andavano nella Maremma toscana (Grosseto) e oltre Firenze in una miniera di antracite (carbon fossile),oppure nell'Agro Pontino (Lazio)a prosciugare le paludi ("gli scariolanti"). Viaggiavano a piedi scalzi portando le scarpe sulle spalle per non consumarle e ci impiegavano cinque o sei giorni.
Gran parte dei braccianti era analfabeta. Fino alla seconda guerra mondiale nel nostro paese c'erano 250 braccianti su mille persone.
(Gondoni Davide senior- commercialista e sindacalista)
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Alcuni artigiani scomparsi e personaggi popolari del nostro paese.
Uomini braccianti e le donne?
Le donne erano molto industriose e risparmiatrici. Oltre a fare i lavori domestici e accudire i figli, si ingegnavano in vari modi. Per esempio:
- Andavano al fiume a lavare i panni per sé e anche per gli altri
- andavano a casa dei contadini a cucire e rammendare tovaglie, lenzuoli, calzoni o altro
- allevavano bachi da seta
- facevano materassi e coperte imbottite
- sfruttavano la campagna andando a spigolare dopo la mietitura, a cercare grappoli rimasti tra le foglie dopo la vendemmia, marroni rimasti nel castagneto dopo la raccolta
- raccoglievano fiori di camomilla, di farfaro (“piadanaza”), di sambuco, di acacia, di tiglio eli vendevano a un commerciante che li rivendeva per fare medicine
- dopo le piene del Lamone andavano lungo le sponde a raccogliere la legna che la fiumana aveva
lasciato.
A volte anche i bambini lavoravano. Andavano col babbo a raccogliere la legna o lo aiutavano in altri lavori. Molti non andavano a scuola, quelli che ci andavano non sempre arrivavano alla quinta classe. Appena grandicelli, alcuni venivano mandati a fare i garzoni dai contadini o da un fabbro. In campagna badavano le pecore, i maiali, pulivano la stalla…Le bambine venivano mandate a servizio, così la famiglia aveva una bocca in meno da sfamare e portavano qualche soldo.
Il 25 marzo era la festa dei garzoni. Essi andavano alla Messa delle 11 e 30 e quel giorno venivano pagati dal contadino anche se non lavoravano.
Ora la legge protegge i bambini perché non permette che lavorino prima dei 15 anni e andare a scuola è obbligatorio.
(Davide Gondoni senior)
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Sfogliare le pannocchie di granturco era un evento nelle case di campagna. Questa nella foto è una sfojereia modesta perché il podere era modesto.Le donne fognanesi intente a liberare le pannocchie dalle brattee sono piuttosto in là con gli anni. Nei poderi più grandi partecipava anche gente giovane e l'atmosfera, spesso arricchita dall' accompagnamento di una fisarmonica, era molto allegra. Il mucchio delle pannocchie da sfogliare gradatamente calava e nell'aia, sotto il cielo stellato, le prime coppie davano inizio alle danze.
espedienti -
1984
I nonni sono sempre disponibili a spolverare i loro ricordi quando i nipotini mostrano interesse. Hanno profuso le loro esperienze e i bambini le hanno scritte secondo la misura della loro capacità. Raccolte nel libro TEMP ED GUERA formano un mosaico di tessere che ci dà un panorama del Tempo di Guerra con accadimenti, informazioni spicciole,impressioni, miseria, paura vissuti dai "grandi" che i bambini hanno ascoltato forse increduli o forse come una brutta favola.
Hanno partecipato tutte le classi, dalle elementari alle Medie, delle località del nostro Comune. Sarebbe interessante leggerle tutte, ma purtroppo dovrò limitarmi.
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>>Una donna anziana mi ha raccontato: Avevo solo un paiolo per cuocere da mangiare. Era sfondo. Allora io facevo una piadina con un po’ di acqua e farina e la appiccicavo sul buco. Dopo ci mettevo l’acqua e cuocevo i maccheroni. I maccheroni erano neri e rozzi come quelli che adesso danno ai cani.
Sara Cantoni – classe I
>>Mio bisnonno Deriè aveva un cugino che era nei fascisti. I Tedeschi volevano ammazzare dieci uomini perché era morto un tedesco. Lui lo imparò e lo disse a Derié. Bisognava avvisare tutti gli uomini. Allora mia nonna, che era una ragazzina, si mise a correre. Contemporaneamente bombardavano Ghiozzano e Strada Casale. Lei correva per avvisare più gente che poteva. Molti scapparono e andarono a nascondersi nei boschi. Così si salvarono. Nello stesso giorno purtroppo i Tedeschi a Santo Stefano caricarono degli uomini su un camion e ogni cento metri ne buttavano giù alcuni e li fucilavano.
Andrea Ceroni I classe
>>Prima della ritirata dei Tedeschi, gli Alleati spararono per una notte intera coi cannoni alle spalle del paese, Dalla finestra della Canova Rico, che si vantava di capire molto di guerra perché lui aveva fatto la guerra mondiale, da buon stratega, stava alla finestra e prevedeva dove sarebbero cadute le bombe dei mortai. Vedeva il lampo del cannone quando sparava e informava gli sfollati che erano lì svegli e impauriti. Tutti aspettavano lo scoppio della granata ma lui li rassicurava: - Calma, calma, questa è caduta su Rontana. Questa è caduta a Cavisana…se ve lo dico io potete star sicuri perché io ho fatto l’ultima guerra.- La mattina dopo, sorpresa! Il budrio, che era sotto la Canova ,era ridotto a un colabrodo. Il bersaglio era lì, alla Canova, proprio dietro la curva.
Andrea Savorani IV classe
>>La nostra maestra ci ha raccontato che in tempo di guerra aveva bisogno di una maglia ma la lana non c’era. I pastori erano in guerra e le fabbriche erano chiuse , poi non c’eranoi soldi e nelle botteghe della lana non ce n’era più. Alora levò un po’ di lana dal materasso, prese il fuso, la rocca cn la pergamena e si mise a filare. La lana filata la tinse di azzurro e la maglia le piacque molto. Anche le altre ragazze facevano così.
Vanna Fabbri II classe
>>Mio babbo mi ha detto:-Durante la guerra c’erano i soldati. Ne arrivarono di tante nazioni. C’erano polacchi, Americani, Scozzesi. I Negri io non li avevo mai visti e rimasi a bocca aperta. Io ero il preferito di un soldato polacco che faceva il ciabattino. Era buono. Mi dava tante caramelle e cioccolate. Un giorno stetti sempre con lui. Mi portò a messa e poi mangiammo insieme. La sera mi riportò dai miei genitori. Mi strinse forte e io vidi che gli scendevano le lagrime per il viso. Quel giorno compiva gli anni il suo bambino che aveva la mia età.
Rita Savorani I classe
>>Un giorno mio zio Marco con un altro bambino andarono di nascosto a trafficare nel magazzino dei soldati. Infilarono una budella dentro una botte e poi succhiarono, succhiarono...Era sera che li cercavano ancora. Li trovarono che erano stesi in terra che non stavano più in piedi dalla sbornia che avevano preso. Ci credo...avevano succhiato del vermuth!
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>>Mia nonna durante la guerra aveva una mucca che le dava parecchio latte. La teneva nascosta perché aveva paura che i Tedeschi gliela arubassero.Ma anche quella poverina, come tante altre mucche fu presa prigioniera dai Tugnì. Però, siccome era una musica intelligente, scappò di notte e sitornò a casa.Per farsi sentire fece dei giri nell'aia clop, clop...e la mia nonna:-Oddio sono tornati i Tugnì! Chi sa che cosa mi rubernno questa volta!" Ma no, quella volta il Signore fu dalla sua parte. La sua mucca era tornata e aspettava di rientrare nella sua stalla.
Franco Sartoni IV classe
>>La mia nonna era rimasta sola con sette bambini. Suo marito l'avevano portato in Germania i Tedeschi. Mia nonna e i suoi figli rimasero nel rifugio per dieci giorni. Una volta i bambini piangevano percé avevsno fame e lei andò di nascosto in un campo dove c'erano delle patate e ne fece una bella provvista. Fece un focherello nel rifugio e le cosse in un bidone che aveva trovato. Quando ritornò a casa, non trovò più niente, nemmeno il letto.
Sauro Sangiorgi IV classe
>>Mio bisnonno Gigi d' Rosa l'avevano preso i Tedeschi, gliene avevano fatte tante che quando lo videro così marridotto lo mandarono a casa. Dopo si ammalò e non volle sfollare.Dalla finestra del Palazzone, dove stavano anche la mia maestra (Teresina Benini) e la mia nonna Assunta, che erano delle giovanette, vedeva tutto quello che facevano i Tedeschi.Una mattina fecero saltare il ponte della strada, quello della ferrovia e quello di Ghiozzano. Il Palazzone tremò e il tetto si sfondò.I Tedeschi si ritirarono e la gente tornò a casa. Teresina fu una delle prime e si salvò perché mio nonno nel momento che stava per mettere un piede su una mina, le disse dove doveva passare. La Piazzetta era tutta piena di mine.
Gianna Bandini II classe
>>Nel paese dopo le otto di sera c'era il coprifuoco.Non si poteva girare se no i Tedeschi ti davano l'altolà e se uno non si fermava gli potevano anche sparare. Se uno si fermava, allora doveva mostrare i documenti e se andavano bene lo mandavano a casa.
Dario Alvisi IV classe
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Aprile 2021
Ho avuto il piacere e la sorpresa di essere contattata su Facebook da Ivan Samorè che non abita più a Fognano da molti anni. Eravamo tutti in famiglia ad essere orgogliosi di lui, nostro vicino di casa. Mio marito Alex, in particolar modo, era fiero della sua carriera brillante nell'aeronautica. A lui, a mio figlio Alberto e a tutti i fognanesi piacevano i suoi voli improvvisi sopra il paese. Ivan intendeva fare una gradita sorpresa ai suoi genitori e a tutti i compaesani.
Da IVAN
Ciao Carla. mi fa molto piacere che Alberto ricordi questi eventi che ovviamente mi entusiasmavano perché era l’orgoglio verso mia mamma e verso i miei compaesani. Io venivo col G 91 Y (in foto) e normalmente succedeva al rientro da qualche missione d’addestramento che passava vicino a Fognano. Così ne approfittavo. La quota era bassina, sotto i 50 metri, ma la velocità non era alta, sui 3-400 km/h. Soprattutto cercavo di usare poco motore per ridurre il più possibile il rumore temendo di disturbare. La direzione era più o meno l’asse della valle, quindi sud-ovest nord-est.
Ho avuto la grande fortuna di avere la giusta predisposizione attitudinale e caratteriale per poter volare e stare molto attento a far tesoro degli insegnamenti per prevenire tutti gli inconvenienti che il volo riserva. Ho avuto la fortuna di entrare in A.M.I. e di farmi voler bene da tutti. Così sono riuscito a divertirmi facendo il mio dovere e non avendo mai una punizione e soprattutto nessun incidente. Ho fatto l’istruttore sulla linea caccia che mi è servito moltissimo. Ho volato per un Gruppo privato con bellissime esperienze. Ho spento innumerevoli incendi con tanto ma tanto sudore con i Canadair del Corpo Forestale dello Stato e della Protezione Civile in tutt’Italia per quattro anni. Lavoro molto impegnativo e pericoloso, ma bellissimo perché facevo qualcosa di molto utile per l’ambiente e per la mia Patria! E poi ho fatto quello che tutti i piloti civili ambiscono: volare con Alitalia.
Ivan si ferma qui, ma avrebbe ancora un lungo elenco di attività svolte e di ricordi da offrirci. E' stato un ottimo membro dell'Aviazione Militare Italiana, oltre che Pilota civile.. Ha volato con le FRECCE TRICOLORI, a noi basta ciò che sappiamo per considerarlo un vanto per il nostro paese.
C.C.
OK OK OK OK OK OK OK OK OK OK OK OK OK
I FOGNANESI VOLANTI (scritto nel 1984)
Il titolo non inganni. Non si tratta di un'equipe di acrobati del circo che volteggiano nell'aria passando da un trapezio all'altro. Questi volano sul serio, solcando le invisibili vie del cielo alla guida di "macchine" che maneggiano con sicurezza, divenendo un tutt'un con esse: uomini con le ali, insomma.
IVAN SAMORE' è il fognanese più veloce in assouto. Sfreccia col suo aereo a reazione, quel mezzo meccanco che sembra forare il cielo, con sicurezza e determinazione.Eppure, dice Ivan, è docile, sensibile, maneggevole. Gli crediamo sulla parola, ma la soggezione resta. A noi quaggiù,che abbiamo i piedi ben posati sulla erra, il suo acuto sibilo e la sua velocità, incutono timore e proviamo ammirazione per chi ha saputo domarlo con tanta destrezza.
Ivan, seppure così giovane,ha già alle spalle una carriera brillante. Istruttore di volo da tre anni col grado di Capitano, è stato da poco eletto Capo Calotta, cioè rappresenta tutti gli Ufficiali e tutela gli interessi degli Ufficiali minori portando avanti le tradizioni e anche le rivendicazioni del reparto. Da pochi mesi è Comandante di Squadriglia (= piloti+istruttori+allievi), è Responsabile della Sala Navigazione della scuola ed è inoltre Ufficiale Sicurezza di Volo.
Aldilà di tutti questi incarichi, la mansione principale per la quale è in Aeronautica è quella di piota.. Come Istrutore di Volo insegna teoria e pratica ai ragazzi che si apprestano a diventare piloti militari volando su un aviogetto da addestramentot avanzato.
Ivan scoprì di avere la passione e le capacità psicofisiche necessarie per fare il pilota frequentando l'Istituto Tecnico Aeronautico di Forlì. Ora è molto orgoglioso del suo lavoro e del suo successo e pensiamo che ne abbia tutto il diritto. Dice:"Il lavoro che faccio mi dà molte soddisfazioni. Alla scuola arrivano ragazzi che sanno a malapena stare in aria ed escono, se ne hanno le capacità, con sul petto L'Aquila di Pilota Militare, sogno di tutti i ragazzi che entrano in Aeronautica. Il 4 dicembre scorso c'è stata la cerimonia per la consegna delle Aquile di P. M. ai ragazzi del Corso Vulcano 3, alla presenza deli Capitano di Stato Maggiore dell'Aeronatica. In parte a questo traguardo ho contribuito anch'io coi miei insegnamenti e la mia esperienza.. E' questa la gratificazione che ricevo come compenso alla fatica, alla tensione e allo stress che il mio lavoro comporta."
Bravo, Ivan, sei un Fognanese in gamba e ci rallegriamo con te.
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BRUNO FERNIANI, un uomo che da creatura terrestre si è trasformato in libellula. Si solleva verso l'alto col suo elicottero relizzando un sogno che è diventato per lui "una ragione di vita"
Dopo aver terminato la Scuola Sottufficiali nell'aprile del 1970, fu accettato alla Scuola di Volo Elicotteri di Frosinone. Ne uscì dopo cinque mesi, che definisce indimenticabili, col brevetto di volo.
Come pilota, è responsabile del velivolo, della incolumità dei passeggeri che imbarca, delle manovre e delle rotte da seguire per portare a termine nel modo miglire la missione che gli è stata affidata.
L'elicottero si presta a una vasta gamma di interventi sia militari che di polizia. Serve da appoggio aereo durante i rastrellamenti, vigila sulle strade o su particolari obiettivi, trasporta e lancia paracadutisti, tiene collegamenti veloci. Oltre a questo, svolge anche missioni di soccorso ricercando persone disperse in mare o in montagna, recupera feriti o persone in difficoltà in zone impervie e si adopera in tante altre occasoni, sempre al servizio della comunità.
"Stare dietro una scrivania o ad un banco di lavoro, non procura emozioni- diceBruno(E noi ce ne rendiamo conto. Sarebbe come tagliargli le ali)- Ogni volo è dierso dll'altro, non c'è motivo di noia e la vita risulta interessante".
Si sente dunque un privilegiato e questa sua serenità, questo suo entusiasmo, questo suo slancio nel compiere azioni utili agli altri, ci Infonde conforto e gratitudine. Perché in questo, credo, sta la parte più emozionante ed interessante: sentirsi leggeri dentro, di quella leggerezza che viene da una missione compiuta con coraggio, con abilità, giorno dopo giorno, pur nella consapevolezza che il proprio nome non comparirà sui giornali anche se non si è uno dei tanti...
ANDREA TRERE' è il più giovane (17anni) ed è ovviamente l'ultimo in ordine di tempo ad essersi conquistato il diritto di guidare per il cielo un oggetto volante ben definito: l'aliante.
Andrea frequentò, durante l'estate del !983, un corso di aeronautica. L'esame finale lo classificò fra i primi, queli cioè meritevoli di recarsi a Guidonia, l'aeroporto militare di Rieti..Dopo un periodo d i addestramento al volo, nell'estate scorsa ha ottenuto il brevetto di pilota di aliante e il brevetto di radiofonia.
Cominciò a dieci anni a interessarsi di alianti. Si trattava di modelli in scala ridotta che si divertiva a montare e a guidare in volo per mezzo di un radio comando. Più tardi imparò a inventare i suoi aerro-modelli, uno dei quali con apertura alare superiore a tre metri. Gli bastava guardare il cielo, ascoltare il vento per capire se era il momento adatto per salire sul monte Visano a far volare i suoi aerei. Ci restava per ore a drigerne e seguirne le evoluzioni e intanto la sa rimettere a nuovo anche quell'aereo che, sfuggendo ai comandi di una radio in avaria, atterrava malamente.
Ora Andrea non resta più solo a terra a guardare i suoi piccoli aerei volteggiare. Ora può salire su un aereo vero che sembra un uccello enorme, con la la sua apertura alare di 17 metri, e trovarsi lassù, tenuto in quota dalle correnti termiche che salgono a vite, sfruttandole per godere il più a lungo possibile di quella sensazione di libertà, di leggerezza,in un silenzio assoluto. L'aliante, come si sa, non ha motore; viene portato in quota da un aereo che lo rimorchia e poi lo sgancia. Il pilota del " volo a vela" (così si chiama), sensibile e attento, esperto e accorto, plana, si capovolge, gioca nell'aria come un uccello fuggito dal trespolo a cui era ancorato e, mentre passa sopra le nostre teste, si ode solo un leggero rumore, come un frusciare di fronde. La sua ombra di enorme uccello ci copre per un attimo, poi fugge raso terra come per invitarci a inseguirla.
C.C.
LA LAPIDE A MAZZINI E GARIBALDI
Durante il periodo fascista, anche Fognano ebbe la sua Casa del Fascio. Come si può vedere dalla cartolina del 1925, essa si trovava nel viale Stazione e precisamente nell'edificio che fu poi adibito a Caserma dei Carabinieri. All'epoca constava di soli due piani e non di tre.
In seguito la sezione fascista si trasferì al primo piano di via Ciani con ingresso al numero 12. Un altoparlante posto In alto all'angolo con Piazza Garibaldi, diffondeva notizie e la voce del Duce durante i suoi proclami. Anche se il periodo fascista non è poi così lontano, molti di noi pur avendolo vissuto, hanno dimenticato episodi e particolari, Luciano Mondini, testimone dalla vivida memoria, racconta che a Fognano è esistita un'altra lapide messa durante il fascismo. Non ricorda dove fosse. Era il tempo dell'entusiasmo fascista, delle alte mire, delle conquiste coloniali. Sulla lapide era tratteggiata, racconta, la mappa con il confine dei territori conquistati e incisa la scritta "L'Italia ha finalmente il suo impero. Mussolini" ( vedi note a piè di pagina)). Poi gli eventi precipitarono e, con la caduta del fascismo, essa venne tolta e probabilmente abbandonata in qualche deposito.
Nel settembre del 1944, durante un bombardamento, la lapide a Mazzini e Garibaldi, risalente al 1883, andò distrutta. L'anno dopo, quando il Partito Repubblicano locale decise di ripristinare quella lapide dedicata ai due gloriosi eroi del Risorgimento, qualcuno ripensò alla " lapide dell'impero" abbandonata. Fu così che essa rivide la luce. Rivoltata e pulita a fondo, ritrovò le parole dedicate a Garibaldi e a Mazzini che oggi tutti possiamo leggere. Il "nostro Impero", per la seconda volta umiliato, ora si trova dunque con la faccia al muro...
Tramite comunicazione del Regio Prefetto Guerresi di Ravenna il 23 ottobre 1936 arrivarono a tutte le Municipalità le disposizioni mandate dal governo riguardo l'apposizione delle lapidi per celebrare la fondazione dell'Impero. Esse così stabilivano:
"Per Superiori disposizioni si comunica che nulla osta, in via di massima, all'attuazione di tali iniziative , sempre che l'apposizione delle lapidi ai fini predetti, sia limitata ai soli edifici di notevole importanza, tanto statali che di enti parastatali.
Si avverte altresì che la iscrizione da incidersi sulle lapidi in questione, dovrà, per ragioni di uniformità, essere del seguente tenore:
"Il popolo italiano ha creato col suo sangue l'Impero, lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le armi".
Mussolini
L'ordinanza diceva inoltre che le suddette lapidi dovevano essere inaugurate alle 12 precise del 18 novembre.
IX maggio MCMXXXVI -XIV (9 maggio 1936- 14)
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La Locanda
Nel 1861 a Fognano c'era una locanda, si è certi perché dal censimento di quell'anno risulta che un certo Mondini faceva il locandiere. Non si sa dov'era situata.L'ultima locanda a Fognano è stata chiusa nel 1951, si chiamava "Albergo locanda Aquila Nera" e aveva nell'insegna un'aquila ad ali aperte. Si trovava in via Emiliani. La porta era proprio dietro la curva di fronte al Caffè Lamone. Ci andavano poche persone di passaggio perché non c'erano tanti turisti come adesso. Erano parenti venuti in visita, o commercianti o venditori ambulanti. Per esempio vi alloggiavanoo alcuni venditori di stoffa di Prato quando, col loro fagotto con dentro le pezze di stoffa, giravano di casa in casa per il paese e per la campagna.
Al pianterreno della Locanda Aquila Nera era situata l'osteria-trattoria dove si andava a bere vino o a mangiare. Al primo piano c'erano tre camere. Le stanze erano grandi, i muri grossi col soffitto a volta. L'illuminazione proveniva da lumi a petrolio o a carburo e il riscaldamento da un caminetto. Nelle camere, per lavarsi, c'erano un catino sul porta-catino e una brocca per l'acqua. Naturalmente l'acqua corrente non esisteva, il locandiere scendeva a prendere l'acqua dalla fontana. C'era un solo gabinetto, sul pianerottolo sulle scale :uno stanzino con un buco chiuso da un coperchio di legno.Chi non voleva uscire di notte dalla camera, si serviva di un vaso da notte posto sotto il letto. I viaggiatori che non avevano i soldi per dormire alla locanda, chiedevano a un contadino di poter dormire nella stalla, dove si riempivano di pulci e altri parassiti, se già non li avevano. Chi aveva il cavallo, lo lasciava in custodia allo stallatico, che era vicino alla porta del Convento. Si trattava di un'ampio e rozzo ambiente, dal soffitto alto, che aveva delle anelle di ferro attaccate al muro.Per terra veniva sparsa della paglia. Il cavallo veniva legato a un'anella con la cavezza e il viaggiatore si sdraiava lì accanto.
Il locandiere che ricordo si chiamava Masò. Siccome non guadagnava abbastanza con i proventi della Locanda, faceva il commerciante di cereali. Così fece poi anche suo figlio Francesco che aveva sposato una signora di Bologna di nome Evelina. La signora Evelina divenuta vecchia, se ne tornò a Bologna nel 1971 e la Locanda fu chiusa, Ora è un normale appartamento dove vive una famiglia.
(Testimonianza di Gondoni Davide senior davanti ai miei scolari di IV elementare nel 1968)
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Da La foire aux cancres
-Le cause delle grandi scoperte geografiche sono l'invenzione della bussola e il desiderio di scoprire una nuova strada per il pan di spezia e i porcellini d'India.
-L'America fu scoperta nel 1942 da Cristoforo Colombo che aveva ricevuto da Isabella di Castiglia tre caramelle: la Nina, la Pinta e la Simca. Il viaggio fu molto duro e gli equipaggi furono terrorizzati dalle atroci risate delle anguille nel mar dei Sarcasmi.
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Una squadra di calcio femminile
Probabilmente molti non sanno che anche Fognano ebbe la sua squadra femminile di Calcio. Questo evento accadde nel 1971. Un team di balde giovani, allenate da Tiziano Sartoni, con la supervisione di Gigino Casadio, Presidente della Polisportiva Fognanese, provò a cimentarsi in questo sport impegnativo. Probabilmente alcune lo trovarono TROPPO impegnativo perché la squadra non tardò molto a sciogliersi. Peccato.
Anche Brisighella, forse nello stesso periodo,formò una squadra femminile di calcio, ma non ebbe vita lunga.
La prima squadra di calcio femminile Italiana nacque negli anni 30 a Trieste. Le ragazze entravano in campo con la sottana. Per riconoscere un loro Campionato bisognò attendere fino al 1968
Foto-Da sinistra in piedi: Marilena Monti,Adami Elena,Adelaide Piancastelli,Pierina Bandini,Pina Casadio,Liliana Visani,Fiorello sullo sfondo e Gigino Casadio pres.Polisportiva.A terra Delia Piancastelli,Antonella Sabattani, Nadia Carroli,Pierina Bentini,Gloria Vantancoli.
Non appare nella foto la mitica primo portiere Anna Maria Carroli.
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Le Società Operaie di Mutuo Soccorso in Fognano
All'inizio del 1900 fu costituita dagli operai e le operaie di Fognano una Società di Mutuo Soccorso sia Maschile che Femminile. Ognuna di esse aveva il suo Statuto. Da quello femminile copio alcuni Articoli.
ART.3- L'associazione ha per base l'unione e la fratellanza e per fine il mutuo soccorso ed il miglioramento morale, intellettuale ed economico delle operaie. Quindi essa fornisce alle socie effettive un sussidio per le infermità e per il parto, ne promuove la moralità, la istruzione, e, a seconda dei mesi, di cui può disporre, procura di svolgersi e perfezionarsi per il maggior bene delle operaie e delle loro famiglie.
ART.6- Ogni socia effettiva deve pagare una lira di tassa di ammissione. Questa tassa, dietro richiesta della socia, può essere pagata in rate mensili uguali che non oltrepassi il numero di cinque.
ART.15- Le Socie che si iscrivono prima dei 20 anni e sono analfabete devono, per proseguire a far parte della Società, imparare a leggere e scrivere entro due anni dal giorno dell'ammissione
(Notizie ricavate dalle ricerche di Claudio Mercatali)
Le forme originarie delle Società di Mutuo Soccorso videro la luce per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio di eventi dannosi.
Da quello che leggo, in verità , la Società operaia di Mutuo Soccorso a Fognano esisteva già nel 1885, come riportato da un articolo apparso sul LAMONE, periodico di Faenza. Forse la data, annotata precedentemente, si riferisce alla pubblicazione degli Statuti.
L' assemblea della Società Operaia di Fognano propose e approvò l'istituzione di una scuola e una banca prestiti per gli operai.
(Dalla ricerca pubblicata da Claudio Mercatali)
Dal periodico Il Lamone: l'articolo sulla gita dei Soci e annunci pubblicitari ( Notare il "grafofono")
Questa foto indurrà molti "maturi" Fognanesi a cercarsi nel gruppo e a fare un bel salto indietro nel tempo.
Tutti i bimbi,eleganti nelle loro divise, sono pronti a partecipare alla Processione del Corpus Domini del 1967, insieme a suor Maria Humilitas e a suor Bernardetta.
Nell’ottobre scorso Ada Ciani, vedova del dottor Giuliano Trerè, nata nel 1925, ha concluso la sua lunga vita: “una vita
piena, interessante, mai banale e ben spesa…”
L'articolo di un amico Dal giornale Il Piccolo
Una bella figura quella dell’Ada, una donna che, con la sua semplicità e tanta cordialità, sapeva trasmettere la grande ricchezza interiore di cui era dotata. Ne sono testimoni i suoi ragazzi, quelli che ha avuto come alunni nei tanti anni di insegnamento a Lavezzola, alla Castellina, a Fognano, che hanno usufruito della sua creatività didattica e che, riconoscenti, hanno poi continuato a manifestarle stima e affetto. Nel suo lavoro, inteso come una missione, erano veramente tanti gli strumenti di cui si serviva Ada e per favorire l’apprendimento e per rendere le giovani generazioni consapevoli e partecipi della realtà in cui stavano crescendo. A questo proposito voglio ricordare il concorso dialettale, intitolato a Elvio Cornacchia per tenerne viva la memoria, che nelle dieci edizioni (dal 1975 al 1984) coinvolse centinaia e centinaia di alunni della scuola dell’obbligo e i loro insegnanti nella riscoperta delle tradizioni, del dialetto e della realtà del territorio di Brisighella. Ogni anno un tema: Vén e cantèna, E mi paés, I fiur de mi paés, El Madonen, E magné d’na volta, L’erbie ch’o’ m pies a me, Ona poieseia com o’m’pê a me, Quand ch’o si evdeva, Zugh e zuglen d’ona volta, Temp ed guera. Ohi, badate bene, il concorso era una cosa seria, con tanto di giuria di alto livello! Le centinaia di elaborati segnalati, e la segnalazione ve lo garantisco era veramente meritata, venivano raccolti in un volumetto, corredato da alcuni disegni, con nome e cognome degli autori, la classe, la scuola di provenienza e, se necessaria, la traduzione in italiano. Un lavoro impegnativo che andava a buon fine grazie alla macchina organizzativa messa in piedi da Ada, donna del fare, che si concludeva con una serata di premiazione nel teatro parrocchiale.
Fu proprio un sabato sera di quarant’anni fa, in occasione del settimo concorso dialettale, che io la incontrai la prima volta. Ada e don Antonio Poletti avevano chiesto a Giuliano Bettoli un breve intervento comico in dialetto e lui volle che io l’accompagnassi per uno di quei nostri sketch in cui da “Sfrocc” mi esprimevo nel dialetto di Lutirano. Quella mia parlata riportò l’Ada agli anni della sua infanzia perché lei era nata e vissuta a Lutirano fino all’età di nove anni. Tanto bastò per metterci in sintonia e per dare il via a un’amicizia che si è mantenuta viva nel tempo. Ritornai varie volte a Fognano, sia per le successive edizioni del concorso sia per assistere ad alcune esilaranti esibizioni della FiFeFo (la Filodrammatica Femminile Fognanese) di cui Ada era l’anima, la colonna portante. Era lei che, con il suo spiccato senso dell’umorismo, scriveva i testi di farse, commedie, e ne delineava i personaggi che poi venivano caratterizzati dalle altre con una grinta tale da strappare applausi a scena aperta: una compagnia di sole donne che saliva sul palco per la voglia di stare insieme, di divertirsi e di divertire!
Ada era una di quelle persone dal carattere aperto, solare, che trasmettono simpatia, con cui ci si sente bene e ogni volta che la incontravo era per me un piacere stare ad ascoltarla; lo stesso piacere che provavo e provo ancora nel rileggere le tante cose che ha scritto, le sue poesie, i suoi racconti. Ada ci ha lasciato pagine deliziose in cui rivivono i fatti, i personaggi, i paesaggi, le stagioni di quel piccolo mondo paesano e rurale di cui lei con la sua sensibilità è stata a sua volta un’attenta protagonista. Le sue pagine, dove non c’è nostalgia per ciò che è andato via via scomparendo, sono piene del suo affetto per quel mondo fatto di quasi niente e del sorriso di Ada che ce lo descrive. Per concludere riporto dal racconto “Laura dei Brigidini” quanto scrisse Ada in occasione della morte della sua amata nonna Laura: “seduta sulla sua seggiolina bassa davanti al focolare acceso, il bricco del caffè che fumava sul treppiedi, se ne era andata leggera come le scintille che sprizzavano dal ciocco. E fra quelle è rimasta ed è luce nei miei ricordi. La vedo, la sento, so che mi è vicina anche adesso”.
Anche tutti quelli che hanno conosciuto Ada e le hanno voluto bene la vedono, la sentono, sanno che gli è vicina anche adesso.
Mario Gurioli
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